Perù rosso sangue

Per «onorare» il trattato di libero scambio con gli Usa il presidente Alan García vuol vendere le terre comunitarie indigene alle compagnie straniere. E manda l'esercito. Una strage: almeno 22 indios e 20 poliziotti uccisi. Parla il leader delle comunità indigene Miguel Palacin Quispe: «Ci difendiamo dalle multinazionali, adesso sciopero generale per far dimettere il governo» Due visioni irrimediabilmente contrapposte del mondo - e dello sviluppo - si sono scontrate nei negli ultimi due giorni (in realtà da secoli) nel più emblematico dei paesi dell'America latina: il Perú di Fiumi profondi e Tutte le stirpi, di Garabombo l'invisibile e Rulli di tamburo per Rancas, i grandi romanzi di José Maria Arguedas e Manuel Scorza. Ed è finita come sempre. Un bagno di sangue a Bagua, cittadina del dipartimento di Amazonas, nel nord peruviano. Per il momento 22 indigeni uccisi e 11 poliziotti che il presidente Alan García aveva mandato (insieme all'esercito) per reprimere una volta per tutte una protesta dei «nativi» che durava da due mesi. Piu altri 9 poliziotti dei 38 che gli insorti avevano sequestrato dopo il massacro del giorno prima, uccisi ieri durante il tentativo di liberarli manu militari. E non sembra finita. Il conflitto, o almeno questa fase del conflitto, è cominciato il 9 aprile quando le tribù indigene si sono ribellate contro una decina di decreti legislativi che García, forte dei poteri speciali che si era fatto concedere dal Congresso, aveva emanato l'anno scorso in attuazione del Tlc, il trattato di libero commercio, «regalato» agli inizi del 2008 da George W. Bush come tangibile riconoscimento all'«amico» Alan (rimasto l'unico, con il colombiano Uribe, nel Cono sud) lanciatosi in una forsennata politica di apertura neo-liberista. Fra quei decreti ce n'era uno, detto Ley Forestal, che voleva mettere «ordine» nella proprietà delle terre e nelle concessioni dei diritti di sfruttamento delle loro risorse. In realtà, dicevano gli indigeni e qualsiasi persona dotata di un minimo di onestà intellettuale, quella e altre misure erano «incostituzionali» e dovevano servire a spianare la strada alle compagnie straniere per l'acquisto e lo sfruttamento delle terre appartenenti allo stato e alle comunità indigene: in palio colossali profitti su petrolio e gas, oro e rame, il legname, l'agricoltura su larga scala. Con i prevedibili - e già drammaticamente tangibili - danni per la vita delle popolazioni originarie (che in Perú costituiscono circa la metà dei 28 milioni di abitanti) e della decantata biodiversità dell'Amazzonia. In Perú ci sono 65 milioni di ettari di selve, di cui 18 milioni sono in regime di protezione, 45 milioni destinati alla produzione e altri 2 milioni alle riserve. Il decreto in questione, ha detto il deputato Roger Nayar Kokally del Bloque popular, «toglie i 45 milioni di selve destinati alla produzione dal patrimonio forestale nazionale». Cioè diventano «vendibili». A chi è facile immaginare. Lo stesso García, che nella campagna elettorale del 2006 sosteneva con la sua fluente retorica la necessità di guardarsi dai «potenti della terra, delle banche e del denaro che storicamente hanno schiacciato i diritti del popolo», dopo il suo secondo insediamento nella Casa de Pizarro sulla plaza de Armas di Lima ha cambiato radicalmente discorso: bisogna aprire agli investimenti stranieri, a qualsiasi prezzo, per creare ricchezza e poter poi distribuire qualche briciola a quel 50% di peruviani che vivono sono la soglia della povertà. La fallimentare teoria del «trickle down» che tanto piace ai fautori del neo-liberismo. Il Tlc con gli Usa (altri ne sono stati firmati con la Cina, il Giappone e la Corea del sud) se ha aperto le porte del mercato Usa all'entrata senza tariffe doganali dei prodotti peruviani, obbliga il Perú a eliminare i suoi dazi sul 75% dei prodotti industriali e di consumo e eliminare qualsiasi ostacolo all'importazione di prodotti agricoli statunitensi. Quando il 14 dicembre 2007 Bush firmò il Tlc, García disse che «era un gran giorno per il Perú» e che George Dabliu era «un vero alleato e amico del popolo peruviano». I numeri macro dell'economia sembravano dargli ragione: l'economia cresceva a tassi cinesi, fra il 7 e il 10% l'anno e le esportazioni del 24% l'anno, gli investimenti stranieri erano passati dagli 800 milioni di dollari del 2001 a 3.5 miliardi di dollari, l'inflazione era fra il 3 e il 6%, la povertà era caduta - secondo le statistiche ufficiali che però avevano «cambiato metodologia di calcolo»... - dal 54% del 2001 al 40% (una cifra radicalmente contestata dai piùWinking. Cifre roboanti che facevano del Perú , sui giornali Usa, «the next rising star in Latin America» ma che non convincevano affatto i peruviani. La popolarità di Alan, misurata il 28 luglio scorso, due anni esatti dopo il suo insediamento, era precipitata dal 63 al 26%, solo qualche briciola in più del suo predecessore Alejandro Toledo di cui seguiva pari pari la linea liberista. Un discredito accentuatosi ancora con lo scoppio della crisi globale. Questa può essere - oltre alla psicolabilità crescente di García, di cui tutti parlano a Lima - una delle ragioni per cui ha deciso di scatenare esercito e polizia per stroncare la protesta (come fece nell'86 con massacro di 400 detenuti nel carcere di Lurigancho). Il movimento indigeno, finora, era stato pacifico anche se sempre più duro. Tagli di strade e di fiumi, occupazione dei pozzi petroliferi e di terre, sporadici scontri. Continuavano a chiedere l'annullamento dei decreti, il riconoscimento dei loro diritti storici sulle terre comunitarie (di cui, ovviamente, non possiedono i titoli di proprietà individuale), il diritto all'acqua prima che quello del petrolio e del rame, il diritto alla vita. Chiedevano il dialogo con il governo centrale. Ma nessuno li ascoltava. Così a metà maggio si sono dichiarati «en insurgengia» e hanno indurito la protesta. Miguel Palacin Quispe, leader della Caoi, Coordinadora andina de organizaciones indígenas, e Alberto Pizango, leader dell'Aidesep, Asociación interétnica del desarrollo de la selva peruana, hanno proclamato una «giornata nazionale di lotta indigena» per domenica 3 giugno, poi rinviata al 7 luglio per vedere se i negoziati col governo e il dibattito annunciato al Congresso dessero qualche risultato. Il 4 giugno l'ultimo schiaffo: la decisione del Congresso di rinviare il dibattito. García ordinava la repressione. Ora contro Pizango è stato spiccato ordine di cattura anche se il 5 giugno era a Lima e non a Bagua. Però il premier, Yehuda Simon, un passato di sinistra in Izquierda unida e nella Commissione per i diritti umani, 8 anni di carcere per contiguità con il «terrorismo» dell'Mrta, l'aveva detto fin da maggio: «Se ci saranno atti di violenza, responsabili non saranno la polizia o i soldati, e neanche i nativi: solo il signor Pizango e quelli che gli stanno dietro». Ieri ha parlato di «un complotto contro i peruviani». Una storia già letta.
 
INTERVISTA AL LEADER DEI MOVIMENTI INDIGENI
di Roberto Zanini
Il capo indigeno: «Ora vogliamo cacciare García» Miguel Palacin Quispe è il capo degli indigeni peruviani. La sua Caoi (Coordinadora andina de organizaciones indigenas) è l'ombrello di una sessantina di sigle e movimenti tra i quali la Aidesep di Alberto Pizango, il leader indigeno da ieri ricercato, capo dell'organizzazione che bloccava l'autostrada sgombrata sanguinosamente dalla polizia. «La situazione - dice al telefono - è molto confusa. Secondo la versione ufficiale lo stato senza alcuna prova ha incolpato l'unico interlocutore valido, Alberto Pizango. La pressione politica ha fatto sì che sia stato spiccato un mandato d'arresto ma non hanno alcuna prova, è un mandato d'arresto arbitrario. Gli avete parlato? E' libero? Sì, è libero, ed è nascosto. Non era nemmeno nella zona dei conflitti, ieri era a Lima con noi. Ciò che è successo è che la forza pubblica ha attaccato il popolo awajun e la cosa non finirà qui. E' quello che non capiscono questi burocrati che hanno causato il problema, con i loro decreti legislativi incostituzionali. Era così facile aprire un tavolo di dialogo, invece hanno scelto lo scontro. E anche i poliziotti morti sono figli di indigeni, sono indigeni che stanno lottando contro altri indigeni. Tutto perché il governo vuole continuare a incassare le sue tangenti. Davvero non si capisce dove vogliano arrivare. Perché questo incrudelimento? Il governo di Garcia ha sottoscritto il Tlc con gli Usa e quando stavano per scadere i termini per adeguare le leggi peruviane all'accordo, il 30 luglio, il parlamento ha approvato 102 decreti legislativi in un solo giorno, vulnerando la costituzione come il convenio 169 (un trattato internazionale che prevede la consultazione delle comunità indigene, ndr). Con quei decreti tutti i nostri territori comunitari sono diventati dello stato. E sono stati concessi 17 milioni di ettari di territorio amazzonico a imprese petrolifere, del legname, forestali, degli agrocombustibili. E' stato un colpo di stato legislativo, questo è il vero tema! E ora la violenza. Non è una novità. Infatti. La lotta indigena andina è stata duramente repressa, abbiamo più di 1.200 dirigenti sotto processo e 28 in carcere e il popolo amazzonico è reduce da uno sciopero di 56 giorni. Ma non ci arrendiamo: l'11 giugno mobiliteremo tutto il paese in uno sciopero generale, perché cada questo governo incapace che sta militarizzando il Perù sulla base di un impegno sottoscritto personalmente da Alan Garcia, e nessuno sa cosa comprende davvero. Siete uniti o ci sono diverse posizioni al vostro interno? Siamo uniti, con tutte le 60 federazioni indigene, le loro centrali nazionali e con tutto il paese. In questa ora difficile stiamo lavorando all'unità con le centrali sindacali, le associazioni dei giovani, dei quartieri e tutti gli altri. Il Perù ha avuto crudeli esperienze di lotta, mi riferisco a Sendero luminoso. Che ne pensate di quell'esperienza? Gli indigeni sono quelli che hanno sofferto le conseguenze di quella guerra, dei 69mila morti accertati dalla Commissione per la verità più del settanta per cento erano indigeni. Ed erano indigeni anche i morti delle forze armate. Noi abbiamo preso chiaramente distanza dai gruppi in armi. Il primo ministro Yehuda Simon è uno di sinistra, con cui si poteva trattare. Che ne pensate? Simon è stato un'enorme delusione, ora difende un regime fascista, difende il Tlc, le multinazionali e la politica autoritaria del governo. Noi chiediamo che tutto il governo se ne vada. Difendete il cammino democratico o potreste radicalizzare ulteriormente la lotta? Tentiamo il dialogo democratico, sempre e comunque, quello che non esiste sono i dialoghi puramente dichiarativi. Vogliamo un dialogo vincolante, vogliamo passare dal dialogo tecnico al dialogo politico, e per questo chiediamo la solidarietà internazionale. Avete contatti con partiti o movimenti? Con lo sconfitto candidato di sinistra alle presidenziali, Ollanta Humala? Siamo aperti, al congresso abbiamo rapporti con partiti politici diversi, alcuni sono nostri alleati - molto pochi in verità - ma i più molti non capiscono il ruolo politico e culturale dei popoli indigeni. Credono che ci opponiamo allo sviluppo ma non è vero, noi ci stiamo solo difendendo. Colpa del solo Garcia o arrivano pressioni dall'esterno? E' la politica generale. Le grandi imprese vogliono garantire i loro capitali e lo fanno chiedendo concessioni per le principali risorse naturali del nostro territorio: miniere, petrolio biodiversità, acqua... È stato scoperto da poco che Alan Garcia e il suo partito chiedeva milioni di dollari per assegnare concessioni petrolifere. Le commissioni pagate sulle concessioni sono la principale spiegazione del perché il governo non vuole fare un passo indietro.