Quel che della Siria continuiamo a non sapere – Alberto Melandri

Recensione di «Esilio dalla Siria» scritto da Shady Hamadi e tradotto da Add editore.

Presentando il suo libro – il 5 giugno scorso a Giavera del Montello nell’ambito del 22° festival interculturale “Ritmi e danze dal mondo” – Shady Hamadi, nato a Milano da madre italiana e padre siriano, a chi gli faceva notare che parlando di Siria per più di un’ora aveva nominato solo di sfuggita l’Isis ha risposto dicendo che in Italia e in generale in Occidente si parla sempre di Isis e si sottovalutano le forze che lo combattono come se fossero “il male minore” quando non vengono considerate come “alleati e quindi difensori delle democrazie occidentali”, ma non è così.

Scrive l’autore: «Dire che in Siria c’è la guerra diventa una frase troppo semplificatoria e approssimativa, aggiungere che la situazione è confusa, al punto da non riuscire a individuare chi siano le vittime e chi i colpevoli, è tragico perché significa che mettiamo tutti sullo stesso piano, sottraendoci alla responsabilità di capire».

Il suo libro è quindi estremamente utile per farsi un’idea delle contraddizioni che attraversano un Paese come la Siria, martoriato da una guerra (350.000 morti al momento della pubblicazione del libro) che la maggioranza dei media tende ad interpretare semplicisticamente come un conflitto fra Isis e nemici dell’Isis, che comprendono uno schieramento variegato che va dalle forze del presidente (che sarebbe meglio chiamare dittatore) Assad, ai suoi alleati storici (Russia di Putin, Iran e Hezbollah libanesi), alle forze statunitensi, ai Kurdi, alla Turchia.

Le immagini che più frequentemente abbiamo visto – in tv, su internet – relative alla Siria, riguardano da una parte le distruzioni dei centri abitati, le macerie fra cui si aggirano esseri umani impauriti e privati anche di quello che serve per sopravvivere, acqua, cibo, un riparo per proteggersi, e dall’altra le file dei profughi che si accalcano ai confini europei, dove spesso vengono respinti, costringendoli a una situazione di “sospensione” nei campi di sosta.

Hamadi dice: «Il nostro Paese è, a suo modo, una grande prigione che costringe i siriani a essere testimoni della guerra e spesso impedisce loro di scappare. (…) Ho conosciuto siriani che sono arrivati in Europa e sono voluti tornare subito indietro, perché la guerra era dentro di loro. (…) Scappavano fisicamente, ma non potevano fuggire da loro stessi, dai ricordi».

Uno dei pregi maggiori del testo è quello di aiutarci a superare i luoghi comuni e di denunciare le omissioni dei media relative al conflitto siriano. Fra i primi, Hamadi ricorda la banalizzazione della alternativa fra il fondamentalismo dell’Isis e il regime di Assad, come se non ne esistessero altre. Questa generalizzazione discende anche dalla maniera con cui quasi tutti i media occidentali salutarono l’avvento al potere di Bashar al-Assad, che succedeva al padre, come quello di un ‘riformatore’ dimenticando «che la Siria viveva una quiete interna, una stabilità eccezionale, grazie alla poderosa macchina di repressione che da decenni lavorava instancabilmente per debellare qualsiasi dissenso». Un altro esempio, citato da Hamadi, di quella che lui definisce la «cattiva pratica della generalizzazione» consiste nel credere di poter analizzare tutti i Paesi arabi adoperando un’unica categoria, come se Egitto e Libano, Tunisia e Arabia Saudita fossero tutti uguali e analogamente l’idea che tutti i musulmani siano uguali e l’Islam un monolite.

Fra le tante omissioni ricordate, l’autore cita il grande movimento popolare di protesta nato nel 2011 in Siria che chiedeva al regime di Assad le riforme, formato da migliaia di persone che si trovavano a cantare in piazza di fronte a carri armati dai quali non si esitò a sparare sulla folla; per distruggere questo grande e pacifico movimento, Assad nel corso del 2011 cominciò a liberare dalle carceri migliaia di fondamentalisti islamici, i quali avrebbero ricostituito le loro reti, attirando molti giovani delusi e inquinando così il movimento popolare che il regime avrebbe facilmente poi presentato come composto soprattutto da terroristi. Ma di queste cose in Occidente si sa poco o niente. Hamadi osserva che «L’Isis aiuta i vecchi regimi, come quello di Assad o quello iraniano, a sdoganarsi, rivendendosi come partner necessari alla lotta di un male superiore (…) di cui l’Occidente ha più paura» perché le immagini delle decapitazioni viste in tv fanno più orrore dei bombardamenti dell’aviazione siriana di Assad su città popolate da uomini, donne, bambini inermi che se sopravvivono sono poi condannati a morire di fame e di sete come gli abitanti di Aleppo in questi giorni.

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