Insorgere. Dalla fabbrica in poi – di Alberto Zoratti

27 Agosto 2021
Le metafore belliche banalizzano le questioni sociali e politiche, ma la posizione di Confindustria non può non essere considerata un vero e proprio atto di guerra contro chi lavora. Dopo aver preteso la continuità della produzione anche nei momenti peggiori della pandemia, oggi gli imprenditori pretendono che i costi della crisi siano pagati da lavoratrici e lavoratori, pura variabile dipendente dai profitti e dai dividendi degli azionisti. Il caso della Gkn è diventato la prima linea di questo scontro frontale, dove la lotta di classe portata avanti dall’unica classe con piena consapevolezza di esserlo spinge a una sempre maggiore precarizzazione e frantumazione del mondo del lavoro. Per questo è importante esserci, in tutti i modi possibili, perché la fabbrica e le storie che contiene non rimangano un pezzo di cronaca, ma diventino parte della storia di questo Paese. A settembre si cercherà di allargare la lotta, le altre fabbriche, ma soprattutto gli altri territori dovranno giocare la loro partita, creando gruppi di sostegno, organizzando iniziative, eventi, mobilitazioni perché #insorgiamo non rimanga semplicemente un hashtag da far circolare sui social.
La fabbrica è come un grande bestione addormentato, con un metabolismo basale ridotto al minimo per evitare che dal letargo passi, velocemente, a miglior vita. Lo avverti soprattutto alla notte, sotto la luce dei riflettori che illumina gli ampi spazi esterni animati dalle decine di persone, tra operai e solidali, mobilitati per evitare che la Gkn diventi bersaglio di una proprietà che, dopo aver cercato di azzerarla, potrebbe farla sgomberare con ogni mezzo necessario.

Il 9 luglio, quando il consiglio di amministrazione del fondo Melrose decise di chiudere lo stabilimento da un giorno all’altro con una semplice email, è stato il primo momento in cui si è concretizzato l’avviso comune firmato dalle parti sociali poco più di una settimana prima a Roma che, sbloccando i licenziamenti, ha di fatto aperto le cataratte di un’alluvione ormai alle porte del sistema Italia.

Al nome Gkn si sono associati la Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, la Timken di Brescia, con i licenziamenti oramai confermati dal fondo finanziario Quantum, e che si va ad associare alle decine di crisi industriali che vedono, tra i casi oramai storici, la Whirlpool di Napoli.

In attesa delle prossime crisi e che alla fine di ottobre si sblocchi il comparto tessile e abbigliamento, con effetti che impatteranno anche a pochi chilometri dalla stessa Gkn, nel comprensorio tessile di Prato.

Spesso le metafore belliche banalizzano le questioni sociali e politiche, ma la posizione di Confindustria non può non essere considerata un vero e proprio atto di guerra contro il mondo del lavoro.

Dopo aver preteso la continuità della produzione anche nei momenti peggiori della pandemia, oggi da viale dell’Astronomia l’ulteriore pretesa è che i costi della crisi siano pagati da lavoratrici e lavoratori, oramai variabile dipendente dai profitti e dai dividendi degli azionisti.

E il caso Gkn è diventata la prima linea di questo scontro frontale, dove la lotta di classe portata avanti dall’unica classe con piena consapevolezza di esserlo spinge a una sempre maggiore precarizzazione e frantumazione del mondo del lavoro.

Aver sbloccato i licenziamenti è stato l’omaggio portato a Confindustria come scorciatoia per l’uscita dalla crisi, scaricandone i costi sociali sulla collettività.

E averlo fatto dopo decenni disarticolazione dei diritti del lavoro, non ultimi il Jobs Act e l’ulteriore indebolimento dei contratti a tempo determinato deciso nel luglio scorso, mentre dal Governo e Parlamento fioccava la solidarietà agli operai Gkn, è da considerarsi non solo irresponsabile, ma ai limiti del criminale, perché conferma la visione neoliberista e opportunistica del Governo dei migliori. Si è preferito correre nel lasciare mano libera alle imprese, mettendo in secondo piano le vere priorità: una seria riforma del welfare, o questioni come il reddito universale, il salario minimo e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Il tutto, tra l’altro, senza un vero e proprio piano industriale capace di dare gambe a una reale conversione ecologica nonostante le decine di miliardi del PNRR e all’interno di un sistema in cui non esistono tutele dalla facilità di delocalizzare e dalla libera circolazione dei capitali.Ma averlo fatto, per di più, senza una visione di Paese è da considerarsi non solo irresponsabile, ma ai limiti del criminale.

La bozza di decreto Orlando – Todde è figlia di questo disastro, nata con l’obiettivo retorico di spingere sulla responsabilità sociale delle imprese, ma senza nessun vero impianto sanzionatorio per chi decide di chiudere per produrre altrove, con un approccio solamente procedurale e per nulla politico della gestione delle questioni aziendali.

Con l’alibi, contestabile, che le normative europee, ispirate agli indirizzi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, impedirebbero limiti alla libertà di impresa all’interno dei confini dell’Unione Europea, favorendo la competizione tra i Paesi UE tra chi è capace di attrarre più investimenti.

Del resto se in Polonia il costo del lavoro è più basso, i diritti meno tutelati e l’energia meno costosa (anche per l’ampio ricorso al carbone come fonte energetica) le imprese là guardano per consolidare i propri profitti.

E l’ulteriore baluardo di chi difende l’indifendibile, al di là delle norme europee, è l’’interpretazione faziosa della nostra Costituzione, perché se è vero che l’articolo 41 sottolinea che “l’iniziativa economica privata è libera” si omettono altre parti rilevanti della Carta costituzionale, come il fatto che non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e che non possa recare danno alla dignità umana, e si tende sempre a omettere l’articolo 42, dove si sottolinea che una volta persa la funzione sociale, la proprietà può persino essere espropriata dallo Stato.

E l’indennità? Potrebbe non essere automatica, secondo alcune interpretazioni giuridiche, come quelle dell’ex giudice della Corte Costituzionale Paolo Maddalena.

E la rimozione, chissà perché, c’è anche per altri articoli come il 4 o il 36, dove si fa presente che l’occupazione dovrebbe garantire un’esistenza libera e dignitosa. Lapsus ben poco freudiani e molto funzionali a un’interpretazione ideologica del diritto costituzionale e del diritto del lavoro.

La vertenza Gkn apre uno spazio politico senza precedenti che va oltre la necessaria difesa di un futuro per i 500 lavoratori e lavoratrici coinvolti. Rimette al centro di un Paese normalizzato dai conflitti la questione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitale e pianeta, e la necessità di cominciare a lavorare in modo serrato per un loro ribaltamento.
Insorgiamo con i lavoratori GKN

In questo un ruolo fondamentale dovrà essere giocato dai territori e dalle loro comunità, dove gli impatti del liberismo e della libertà di fare profitti sono più pesanti: non sarà sufficiente creare gruppi di sostegno al collettivo di fabbrica Gkn e iniziative locali di mobilitazione e di sensibilizzazione, ma si dovranno creare le condizioni per una messa in rete di tutte le vertenze del territorio per far crescere una massa critica capace di opposizione sociale e di visione alternativa.

Sarà solo una prima tappa, in questo periodo distopico di pandemie della nuova era dell’antropocene, ma un piccolo passo è sempre un ottimo incipit della lunga marcia che tutte e tutti siamo chiamati ad affrontare, dove le parole conflitto, ribaltamento dei rapporti di forza, diritti del lavoro e trasformazione ecologica dovranno diventare l’asse trainante dell’alternativa sociale che bisognerà mettere in piedi.

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