Rubrica/Cono Sud – La tornata elettorale – Gabriele Colleoni

Il Sudamerica resta a sinistra

Evo Morales riconfermato presidente della Bolivia per la terza volta il 12 ottobre. Dilma Rousseff che, seppur in un ballottaggio estremamente incerto fino alla fine, il 26 ottobre, ha avuto la meglio sul suo sfidante di centrodestra Aécio Neves, conservando la presidenza in Brasile e proiettando verso i 16 anni la permanenza di un esponente del Partito dei lavoratori di Lula (Pt) a Palacio da Alvorada di Brasilia. Infine, il candidato del Frente Amplio Tabaré Vazquez che sempre il 26 settembre ha ipotecato con il 47 per cento dei voti al primo turno la sua elezione a presidente dell’Uruguay come successore del compagno di partito, il popolare José «Pepe» Mujica (ballottaggio il 20 novembre con il candidato del Partido Nacional, di centrodestra, Luis Lacalle, figlio di un ex presidente, fermatosi al 31 per cento dei consensi). Insomma, la primavera australe ha visto il «triplete» della sinistra sudamericana che, pur con tutte le dovute distinzioni interne, mantiene saldamente, almeno sul piano ideologico, a sinistra la barra politica regionale. Il socialista Morales, al potere dal 2006, ha conquistato il suo terzo mandato con un plebiscitario 61 per cento, sconfiggendo nettamente il candidato del centrodestra, l’uomo d’affari del centrodestra Samuel Doria Medina, fermatosi al 24 per cento, ed espugnando -dato politicamente rilevanteper la prima volta anche roccaforti dell’opposizione come Santa Cruz de la Sierra, capoluogo della regione motore economico del Paese, da dove nel 2008 si era persino scatenata una sfida autonomista contro il primo presidente indigeno della storia boliviana. Dedicata la vittoria al leader cubano Fidel Castro e al defunto presidente venezuelano Hugo Chavez. Evo ha sottolineato che “questo nuovo trionfo del popolo boliviano” gli permetterà di continuare a promuovere “l’integrazione non solo tra i boliviani ma anche tra i latinoamericani”. Tra i fattori determinanti del suo successo -spiega il politologo boliviano Carlos Toranzovanno annoverati l’aumento dei salari minimi e la redistribuzione diretta agli anziani, alle donne incinte e ai bambini che vanno a scuola. L’altro fattore decisivo è stata la capacità di inviare ai boliviani messaggi forti contro la discriminazione. La grande spinta all’integrazione, sociale e regionale, e il modello economico adottato da Morales -un capitalismo di Stato sui generis amazzonico-andino con un’economia mista e una forte presenza dell’impresa privatasi sono rivelati vincenti per il Paese e hanno consolidato il consenso popolare intorno al presidente, che resterà a Palacio Quemado di La Paz fino al 2020. Il Movimiento al Socialismo, il partito di Morales, ha ottenuto anche la maggioranza dei due terzi al Senato (25 seggi su 36) sfiorandola anche alla Camera dei deputati (86 su 130), il che potrebbe consentire di varare una nuova riforma costituzionale che tolga il limite dei mandati presidenziali.
Argentina. Lo spettro di un nuovo default

Ad appena tre mesi dal secondo default in meno di 13 anni, l’Argentina potrebbe incappare a partire da novembre in un nuovo mancato rispetto delle scadenze di pagamento del debito sovrano. Dal 30 ottobre, infatti, il governo è esposto a una richiesta di pagamento anticipato dei 14 miliardi di dollari di bond 2038 e dei relativi interessi, in scadenza di pagamento a settembre. Nonostante il governo di Buenos Aires avesse depositato 161 milioni di dollari presso un istituto argentino, gli obbligazionisti non hanno potuto essere pagati a causa del divieto imposto da una sentenza di un giudice nordamericano di pagare i creditori ristrutturati, senza il preliminare soddisfacimento anche di quelli dissenzienti. La decisione del magistrato di New York, Thomas Griesa, di trattare il default di un debito sovrano come il fallimento di una qualsiasi attività economica o finanziaria, ha riportato insomma l’Argentina di nuovo sul baratro della dichiarazione di bancarotta (almeno “tecnica”, cioè dell’impossibilità di far fronte ai pagamenti, imposti per via giudiziaria, del proprio debito), con lo spettro incombente di possibili drammatiche crisi analoghe a quella che ha devastato il Paese tra il 2001 e il 2002, con la bancarotta più grande mai registrata da uno Stato. Eppure, soprattutto a seguito degli accordi intervenuti tra il governo di Nestor Kirchner e i debitori nel 2005 con i cosiddetti «tango bond», quella situazione sembrava esser stata gradualmente superata con apparente successo, tanto che, dopo un bando di 13 anni dai mercati finanziari internazionali, l’Argentina contava con il prossimo anno di rientrare nel gioco del credito per dar ossigeno alla propria economia in forte rallentamento dopo la crescita dell’ultimo decennio. Eppure una relativamente piccola percentuale (1,6 per cento) del debito sovrano argentino -detenuta da cosiddetti hedge funds o “fondi avvoltoi”, cioè i fondi finanziari speculativi ad alto rischiocon il ricorso giudiziario per ottenere il rimborso dei titoli in suo possesso, ha ottenuto una sentenza favorevole dal giudice Griesa. Si tratta di una forma di business, diffusa e sostenuta con una fortissima azione di lobbying, che si è basata sull’acquisto a buon mercato dei vecchi titoli del debito in default, per poi richiederne il rimborso al di fuori degli accordi raggiunti dal governo argentino con la maggior parte dei creditori. Il futuro del Paese è perciò “in ostaggio” di una sentenza emessa a New York, dove peraltro lo scorso giugno il governo argentino aveva depositato presso la Bank of New York Mellon i 539 milioni di dollari necessari per pagare entro la scadenza di fine luglio i detentori di titoli che hanno invece accettato i nuovi bond del debito argentino, a valori di concambio negoziati con il governo di Buenos Aires. La presidenta Cristina Fernandez de Kirchner e il suo ministro dell’Economia, Axel Kicillof, potrebbero attendere gennaio, prima di trovare un’intesa con i fondi dissenzienti, vincitori della battaglia legale negli Usa. A fine anno, infatti, scade la clausola sui bond ristrutturati nel 2005 e nel 2010: ciò eviterebbe a Buenos Aires di dover soddisfare le maggiori pretese da parte di chi ha accettato i due accordi di ristrutturazione del debito dopo il default del 2002. Il governo è arrivato a pubblicare pagine a pagamento su importanti quotidiani quali New York Times e il Wall Street Journal, in cui denunciava all’opinione pubblica americana e agli operatori economici che “Default vuol dire non pagare. L’Argentina paga. È il momento di fermare le bugie e le speculazioni… Ancora una volta i fondi avvoltoi minacciano e diffamano l’Argentina” per realizzare “esorbitanti profitti” e senza “trattare mentre l’Argentina vuole continuare il dialogo su una base equa e legale con tutti i creditori”. La presidenta non ha esitato a definire “gli avvoltoi sempre più aquile dell’impero”, per “far cadere la ristrutturazione del debito sovrano affinchè l’ Argentina torni a dovere miliardi di dollari”. Torna ancora una volta al centro del problema il nodo irrisolto dei fondi speculativi che impazzano sui mercati finanziari internazionali, forti del fatto che le decisioni giudiziarie Usa potrebbero costituire un fondamentale precedente. E questo nonostante le leggi degli Stati Uniti, in teoria, non si possano applicare ad altri Stati nazionali, e nonostante le sanzioni siano state comminate ad uno Stato-Nazione, senza che sui debiti sovrani vi sia al momento un “diritto fallimentare” internazionalmente riconosciuto. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha sentito la necessità di varare in ottobre una proposta per garantire che i “fondi avvoltoio” non possano bloccare la ristrutturazione del debito sovrano argentino e per stabilire, pur senza norme vincolanti, condizioni di parità per il governo e i fondi. Si tratta di un’alternativa alla proposta avanzata dall’Argentina in sede delle Nazioni Unite, per istituire invece un trattato internazionale che disciplini le ristrutturazioni del debito pubblico perché i vulture founds non possano bloccarle.
Uruguay. La marijuana di Stato con il nuovo presidente

Non è ancora chiaro quando arriverà sul mercato la “marijuana di Stato”, come prevede la legge recentemente approvata dal Parlamento di Montevideo. Il presidente uscente “Pepe” Mujica ha ribadito che non potrà essere consegnata alle farmacie -“per problemi pratici”prima del 2015, ma la Giunta Nazionale preposta alla questione assicura che sarà invece disponibile già da novembre. Secondo Mujica “se facciamo troppo in fretta, le cose vengono male e sarà un problema… ci sono ancora cose da risolvere come il fatto di avere un software che funzioni per la registrazione dei consumatori prevista dalla riforma”, peraltro molto contestata anche a livello internazionale. In ogni caso dovrebbe toccare al nuovo presidente -con ogni probabilità Tabaré Vázquez, l’oncologo che ha già guidato il Paese tra il 2005 e il 2010, espressione del Fronte Amplio e primo capo di Stato di sinistra nella storia dell’Uruguay“governare” il debutto della “marijuana di Stato” dopo il suo insediamento il prossimo 1° marzo.

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