Palestina: un popolo detenuto

Ingrid Colanicchia 14/07/2016

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 23/07/2016

«Quando sono nato, nel 1985, mio padre era detenuto in carcere. Quando mi sono laureato era ancora in prigione. A settembre mi sposerò e con tutta probabilità mio padre non sarà al mio fianco neppure in quel momento».

Bastano poche parole a Qassam Barghouti per tratteggiare la storia della sua vita e con essa la storia di tutto il popolo palestinese. La sua non è una famiglia qualsiasi: suo padre è Marwan Barghouti, figura di spicco di Fatah, condannato da Israele a cinque ergastoli.

Una storia di sofferenze che si ripete, tristemente simile, per moltissime famiglie palestinesi.

Qassam ci racconta la sua in una serata di inizio estate, a Roma, presso la Comunità di Base di San Paolo, nell’ambito di una giornata di approfondimento dedicata ai prigionieri politici palestinesi, organizzata dalla Rete romana di solidarietà con la Palestina e da Assopace Palestina.

Accanto a lui c’è l’avvocata israeliana Lea Tsemel, che da 40 anni si batte al fianco del popolo palestinese. «Sono passati quasi 50 anni dall’inizio dell’occupazione – esordisce – e al mattino quando mi sveglio mi guardo allo specchio e mi dico: “La mia vita è un fallimento”. Cerco di prestare il mio aiuto di qua e di là ma i risultati dove sono? Durante la prima Intifada ero piena di speranze – racconta – ma le cose si sono fatte solo più complicate. Israele ha continuato a bluffare. E in questi 20 anni abbiamo avuto solo più colonie e più arresti: niente a che vedere con la pace», dice amaramente. «Quello a cui assistiamo è una specie di scambio: i prigionieri palestinesi vengono detenuti in Israele – in violazione dell’art. 76 della IV Convenzione di Ginevra, che stabilisce che una potenza occupante deve detenere i cittadini del territorio occupato nelle carceri all’interno dello stesso territorio – mentre i coloni israeliani occupano sempre più terre in Cisgiordania. Si tratta di un modo per dominare e sta funzionando. L’impresa coloniale sta funzionando». «Di fatto – prosegue l’avvocata – Israele cerca di spazzare via ogni nuova leadership. E il carcere e la detenzione amministrativa (procedura che consente, al sussistere di determinate condizioni, di incarcerare una persona “sospetta” per un periodo di sei mesi rinnovabile indefinitamente, senza muoverle alcuna accusa formale e senza regolare processo, ndr) sono due degli strumenti utilizzati in questa fase». È tutto il quadro a essere drammatico: «La sinistra israeliana è debole e in Parlamento praticamente non esiste. La destra sta invece crescendo e i coloni hanno ruoli importanti nel governo e nel Parlamento». «Dobbiamo aprire nuovi orizzonti», conclude Lea Tsemel. «Non dobbiamo stare seduti tranquilli: si tratta di vita o di morte, il sostegno di cui il popolo palestinese ha bisogno non è umanitario ma politico».

Su questo tasto Qassam Barghouti e Lea Tsemel hanno battuto anche nella mattinata di quel giorno, quando sono stati ricevuti dall’on. Pia Locatelli, presidente del Comitato Permanente sui Diritti Umani, istituito in seno alla Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati. Diversi i parlamentari presenti, ai quali Luisa Morgantini presidente di Assopace Palestina, ha formulato una serie di richieste: tra le azioni più urgenti da intraprendere, un’interrogazione parlamentare sulle condizioni dei prigionieri, una facilitazione della concessione dei visti ai cittadini palestinesi e il sostegno dell’Italia alla candidatura di Marwan Barghouti al Premio Nobel per la Pace (a livello europeo, si è già mobilitato in questo senso un gruppo di parlamentari belgi). Al termine dell’incontro l’on. Locatelli si è ufficialmente impegnata con i presenti a portare avanti la battaglia per i palestinesi detenuti.

Essendo il prigioniero più noto, Barghouti è il volto della campagna per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi lanciata nell’ottobre 2013 dalla cella in cui era detenuto Nelson Mandela, nella prigione di Robben Island. Una battaglia la cui importanza si coglie se ci si sofferma a pensare che dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania, nel 1967, 800mila palestinesi hanno condiviso il suo destino, vivendo sulla propria pelle il pugno di ferro delle carceri israeliane. Attualmente (dati aggiornati a marzo) sono circa 7mila i prigionieri palestinesi, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 minori (di cui 98 sotto i 16 anni), 6 membri del Consiglio nazionale palestinese, 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, ora Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, 458 condannati a vita.

Numeri che danno il polso dell’insostenibilità della situazione, contro la quale in questi anni si è levata forte la voce degli stessi prigionieri che per cercare di attirare l’attenzione internazionale hanno più e più volte scelto lo strumento dello sciopero della fame.

Ad essi è dedicato il documentario di Al Jazeera “Hunger Strike” (“Sciopero della fame”) proiettato durante l’incontro alla CdB di San Paolo. Il senso di questa scelta durissima, che può condurre alla morte, lo spiega bene Pat Sheehan, ex membro dell’Ira (Irish Republican Army), la cui testimonianza è stata raccolta dall’emittente araba: «Non volevamo morire di fame, ma gridare al mondo che era in corso un’ingiustizia».

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