Nella Striscia di Gaza il 70% della popolazione “dipende” dagli aiuti internazionali

22 marzo 2018

Israele taglia acqua potabile a Gaza
Gaza – MEMO, Quds Press. Israele ha interrotto i rifornimenti d’acqua potabile per la Striscia di Gaza dallo scorso mercoledì, secondo quanto riportato da Quds Press.
La mossa è stata fatta senza alcun preavviso. “Mekorot, il fornitore d’acqua israeliano, ci ha confermato mercoledì scorso che avrebbe tagliato l’acqua per un paio d’ore a scopo di manutenzione”, ha spiegato Maher Salem, il direttore dell’Autorità per l’acqua di Gaza. “Da allora, l’acqua non è più tornata. Il pompaggio non è stato ripreso come concordato con loro. Ciò ha influito sulla distribuzione dell’acqua a Gaza”.

Acqua palestinese, sottratta da Israele e rivenduta ai Palestinesi. Secondo Salem, fino a 200 mila palestinesi nell’enclave costiera usufruiscono dell’approvvigionamento idrico fornito dagli israeliani, che proviene da pozzi profondi situati lungo il confine orientale della Striscia di Gaza. Mekorot vende acqua a Gaza in seguito ad un accordo firmato l’anno scorso.
Tutti i pozzi d’irrigazione utilizzati dagli agricoltori vicino al confine di Gaza si sono asciugati poiché Israele ha sequestrato le sorgenti sotterranee d’acqua attraverso i suoi pozzi molto profondi. Ai palestinesi di Gaza non è permesso scavare dei pozzi profondi più di 100 metri. Gli abitanti di Gaza soffrono di una grave mancanza idrica. Fino al 95% dell’acqua nel territorio non è adatta al consumo umano, secondo gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

27 marzo 2018

L’OCHA lancia un Piano di Risposta Umanitaria sulla tragica situazione di Gaza
Gaza-PIC.
Jamie McGoldrick, dell’Ufficio ONU per la Coordinazione degli Affari Umanitari (OCHA) ha annunciato la settimana sorsa il lancio del Piano di Risposta Umanitaria (HRP) per il 2018, che mira a rispondere alle necessità di 1,9 milioni di palestinesi nei territori occupati, gli oPt. McGoldrick sostiene che il piano si inquadra nel contesto di una delle crisi di protezione più longeve, legata direttamente all’impatto dell’occupazione israeliana, la quale ha compiuto 50 anni a giugno 2017, accanto alle divisioni palestinesi interne e alla chiusura da parte dell’Egitto del passaggio di Rafah.

Quest’anno siamo particolarmente contenti di lanciare l’appello a Gaza insieme allo Stato della Palestina. Nel fare ciò, stiamo mandando un forte messaggio sul nostro impegno comune nel migliorare la situazione umanitaria per i quasi 2 milioni di residenti palestinesi a Gaza, più della metà dei quali sono bambini”, ha dichiarato.

Non c’è posto più adatto, per lanciare il piano umanitario, di Gaza, dove assistiamo a una tragedia perpetrata dall’uomo e che si ripete di giorno in giorno. Oggi, Gaza è sull’orlo di una catastrofe e le necessità umanitarie sono tante. Dieci (10) anni di movimenti intensificati e di restrizioni agli accessi, nonché l’escalation di ostilità, insieme alle divisioni interne e alla chiusura di Rafah, hanno lasciato il 70% della popolazione alle dipendenze degli aiuti internazionali”, ha aggiunto.

Il 40% delle abitazioni a Gaza non rispetta gli standard internazionali per la sicurezza alimentare; la disoccupazione si attesta quasi al 47%, dovuta principalmente a un’economia a pezzi, limitata dalle restrizioni sul movimento delle persone e dei beni e da una crisi dell’energia che lascia le persone senza elettricità per quasi 20 ore al giorno” ha avvertito McGoldrick.

Senza il carburante di emergenza, proveniente dai donatori, distribuito alle strutture idriche, sanitarie e igieniche principali, andremmo incontro a un collasso totale del sistema, con conseguente disastro umanitario. Anche con gli aiuti, il 40% della popolazione riceve solo tra le 4 e le 6 ore di fornitura idrica, ogni 3 o 5 giorni, e più di 100 milioni di litri di liquami – quasi tutti grezzi – finiscono in mare ogni giorno. L’accesso alle cure mediche, diritto umano fondamentale, è negato a migliaia di persone per via della mancanza di medicinali, attrezzature e competenza disponibili a Gaza, il che va ad aggiungersi alla notevole difficoltà di uscire dalla Striscia per ricevere cure altrove”.

Abbiamo davanti a noi i danni disseminati dalle ostilità del 2014. Sono stati fatti grandi passi avanti per la ricostruzione, ma più di 20.000 palestinesi sono ancora sfollati sin da allora. Meno visibile è il danno psicologico, specialmente sui bambini, che migliaia di palestinesi hanno subito durante e prima del conflitto” ha dichiarato l’OCHA.

A destra vediamo segni della crisi nei servizi di base, peggiorati l’anno scorso, con una stima di circa 30.000 tonnellate di spazzatura non raccolta accumulata solo qui in questo punto”.

Dietro di me, vediamo le lagune di liquami di Beit Lahiya; simbolo dell’insufficiente infrastruttura idrica e igienica, dipendente da una pompa donata da alcuni benefattori che drena i liquami per evitare che la laguna straripi, come accaduto nel 2007 quando morirono 5 persone” si legge nella dichiarazione dell’OCHA. “E infine, a sinistra, vediamo la limitazione di accesso sulle terre, dove gli agricoltori subiscono restrizioni, imposte dalle autorità israeliane, sull’accesso ai terreni agricoli, il che mette a rischio la sicurezza fisica e influenza il sostentamento a Gaza. Queste aree sono tra le più vulnerabili negli oPt, una realtà mostrata proprio questo mese quando un agricoltore palestinese di 59 anni è stato ucciso dai fucili israeliani mentre lavorava la sua terra nelle zone proibite a est di Khan Younis”.

Secondo McGoldrick, in Cisgiordania ci sono meno necessità ma non meno serie o urgenti. Le restrizioni sui movimenti e sugli accessi, spesso nel contesto di attività di insediamento israeliane, le pianificazioni discriminatorie e le politiche a zona hanno frammentato il territorio, distruggendo case e mezzi di sostentamento. L’effetto combinato di un numero di politiche ha creato per molti palestinesi, in zone come l’Area C, Gerusalemme Est e la parte controllata da Israele di al-Khalil, un ambiente coercitivo che li spinge ad andarsene e genera il rischio di un trasferimento forzato.

Circa 270.000 palestinesi nell’Area C sono colpiti direttamente dalle restrizioni israeliane e dal controllo su infrastrutture idriche e igieniche”, ha dichiarato. “350.000 persone in Cisgiordania sono esposte alla violenza dei coloni e più di 260.000 persone, compresi i rifugiati palestinesi, hanno bisogno di cure mediche umanitarie. L’accesso all’istruzione è fortemente compromesso da un aumento delle violazioni legate all’istruzione, che colpiscono circa 40.000 studenti e insegnanti”.

In questo scenario di necessità preoccupante negli oPt, la massiccia crisi dei fondi dello UNRWA, uno dei principali fornitori di servizi e principale datore di lavoro, specialmente a Gaza, deve destare preoccupazioni in tutti, non solo nei rifugiati palestinesi”, ha sottolineato.

In generale, il piano umanitario per il 2018 chiede 539,7 milioni di dollari per rispondere a necessità umanitarie urgenti nelle zone di protezione, sicurezza alimentare, sanità, acqua e igiene, rifugio e istruzione. Il 75% della richiesta è destinato ai palestinesi di Gaza. Metà della somma totale è per i progetti di emergenza dello UNRWA.

Traduzione per InfoPal di Giovanna Niro

19 marzo 2018 – il manifesto
Le invenzioni a mani nude di Gaza
Fare di assedio virtù: turbine eoliche, macchine elettriche e il primo mattone fatto di carbone e cenere.
Dopo 11 anni di blocco israeliano i gazawi hanno sviluppato una scienza utile e «fai da te»
di Chiara Cruciati

Majd Mashharawi al lavoro per la sua Green Cake

Far di assedio virtù: in uno dei territori più affollati del pianeta, quasi due milioni di persone chiuse in 365 chilometri quadrati, con il 97%di acqua non potabile ed energia elettrica disponibile dalle quattro alle sei ore al giorno, Gaza si ingegna.

Pannelli solari fatti in casa, auto elettriche assemblate sui tetti, mattoni costruiti con il carbone, sono alcune delle invenzioni che scandiscono da qualche anno la vita nella Striscia. E se l’assedio israeliano compie undici anni, è il periodo successivo all’ultima offensiva militare «Margine Protettivo» (luglio-agosto 2014) ad aver stimolato giovani studenti e ricercatori.

Perché, a quasi quattro anni di distanza, Gaza non è mai stata ricostruita: l’intricato sistema imbastito dalle Nazioni unite, su idea dell’inviato speciale Robert Serry, si è presto arenato per la mancanza dell’elemento indispensabile, il cemento. Da Israele non entra quasi nulla e decine di migliaia di famiglie vivono ancora da sfollateo in affitto forzato. Solo il 20% delle 17mila case distrutte o seriamente danneggiate è stato ricostruito.

Se il cemento non c’è, ha pensato due anni fa Majd Masharawi, laureata in ingegneria civile, usiamo qualcos’altro. Con l’amica Rawan Abdelatif si è inventata la «Green Cake»: dopo un anno di tentativi hanno prodotto il loro primo mattone fatto di carbone e cenere. Letteralmente, l’araba fenice che risorge dalle sue ceneri. Il mattone, unico al mondo, pesa la metà di un mattone normale e, test alla mano, è più resistente. Ed è anche molto più economico, elemento non da poco in un territorio schiacciato dal 44% di tasso di disoccupazione (valore che supera il 60% tra i giovani di età compresa tra 15 e 29 anni).

Il carbone a Gaza non manca: ogni giorno i ristoranti producono 30 kg di carbone, ogni settimana le fabbriche di stoviglie di argilla sette tonnellate. Dopo decine di tentativi falliti, Majd ha prodotto il primo prototipo grazie ad una piccola fabbrica: ha avanzato per tentativi vista l’assenza nella Striscia di laboratori in grado di testarne durata e resistenza. Ce ne sono in Cisgiordania ma la separazione delle due enclavi palestinesi da parte di Israeleha impedito al mattone di superare due muri di cemento.

Lo scorso anno la «Green Cake» ha vinto il premio Mobaderoon III per start up locali e un finanziamento per la produzione dei primi mille mattoni, attirando l’attenzione del progetto Japan-Gaza Innovation Challenge. Il mattone, che non è riuscito a sbarcare in Cisgiordania, è volato in Giappone per i test.

È invece del mese scorso la fiera organizzata dall’Autorità dell’ambiente palestinese, in contemporanea a Gaza, Hebron e Jenin. Un festival delle invenzioni per migliorare la qualità della vita sotto assedio: le ingegnere Rana al-Ghossein, Fidaa al-Shanti e Haya al-Ghalayini hanno presentato un macchinario a energia solare che aumenta l’umidità dell’aria e produce gocce d’acqua (un litro di acqua potabile l’ora),mentre l’ingegnere Islam al-Amoudi si è inventato un macchinario che sfrutta la sabbia e la pressione per filtrare le acque reflue per utilizzarle per l’irrigazione.

Gioca con il vento, invece, la prima turbina eolica fatta a mano. L’hanno costruita due ricercatori, Mohamed Elnaggar e Ezzaldeen Edwan, del Palestine Technical College di Deir al-Balah, a sud di Gaza. Dal 2007 Israele vieta l’ingresso a Gaza delle turbine per generare energia dal vento e i due hanno pensato di fare da soli. E hanno vinto: la cooperazione tedesca ha finanziato il progetto dopo il primo prototipo, dal costo totale di 4.700 dollari e capace diprodurre 5 kilowatt all’ora. Con cinque turbine, dicono Mohamed e Ezzaldeen, si può produrre energia per un intero palazzo di 20-25 appartamenti.

Era fatta a mano anche la prima auto elettrica gazawi: ad assemblarla, nel 2012, è stato un tassista di 32 anni, Munther al-Qassas, che la carenza di carburante doveva sopportarla ogni giorno, tra file interminabili alle pompe di benzina a seccoe costi che lievitavano. L’ha costruita sul tetto della sua casa a Gaza City: ha due posti oltre al guidatore, è senza sportelli ed è più piccola di una Smart, non supera i 20 km all’ora ma permettedi tamponare la crisi. E sfidare l’occupazione.

 

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