Libia, lo scandalo sotto il tappeto – di Gianluca Cicinelli

Mercenari russi, truppe turche e gruppi armati composti da siriani, ciadiani e sudanesi. Secondo le Nazioni Unite erano circa 20 mila i soldati e i mercenari presenti in Libia alla fine del 2020, nessun ritiro è stato rilevato da allora. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto, con una dichiarazione approvata all’unanimità, il ritiro senza ulteriori ritardi di tutte le forze straniere e dei mercenari dalla Libia con il pieno rispetto dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite da parte di tutti gli Stati membri. Secondo gli esperti dell’Onu addetti al controllo l’embargo dal 2011 è stato regolarmente violato per anni. Le Nazioni Unite hanno accolto comunque con favore il governo transitorio del premier Abdul Hamid Dbeibah, che ha ottenuto la fiducia del Parlamento a Sirte. Un’apertura verso le buone intenzioni espresse dal neonato governo.

Il ritiro di mercenari e stranieri secondo l’inviato Onu nel paese, Jan Kubis, servirà molto per ricostruire l’unità e la sovranità della Libia e sanare le profonde ferite causate da molti anni di conflitti interni e interferenze straniere. Ma non è così semplice e non basterà una risoluzione Onu per raggiungere l’obiettivo. La Libia ospita dieci basi militari completamente o parzialmente occupate dai 20 mila soldati stranieri e mercenari. “Una sconvolgente violazione della sovranità libica” l’ha definita lo scorso dicembre l’inviata Onu “ad interim” in Libia, Stephanie Williams. “Potreste credere – ha detto alle autorità locali – che questi stranieri siano qui come ospiti, ma ora stanno occupando la vostra casa. Questa è una palese violazione dell’embargo sulle armi. Stanno riversando armi nel vostro Paese, un Paese che non ha bisogno di altre armi. Non sono in Libia per i vostri interessi, sono in Libia per i loro interessi”.

Il governo di Abdul Hamid Dbeibah intanto, dopo l’accordo di Sirte – non a caso firmato lungo la linea che divide Tripolitania e Cirenaica, in sostanza la prima sotto l’influenza turca e la seconda sotto quella russa – afferma di voler offrire alla Libia una reale opportunità per andare avanti verso l’unità e la stabilità, ma la situazione è tutt’altro che sotto controllo. L’inserimento di Turchia e Russia nell’area dalla fine del 2019 si è aggiunta agli interessi già difesi da Italia, Francia, Emirati ed Egitto. Ankara ha sostenuto Fayez al-Serraj, mandando soldati e alcune migliaia di mercenari precedentemente utilizzati in Siria. La Russia invece ha sostenuto Khalifa Haftar inviando uomini nella regione della Cirenaica. Nella visione degli Usa una Libia instabile destabilizza l’intera sponda sud del Mediterraneo, alimentando flussi migratori incontrollati e potenziali minacce terroristiche. Da qui il sostegno all’appello dell’Onu per i ritiro dei militari stranieri.

Mentre l’Italia sostiene con entusiasmo – parole di Mario Draghi del 5 aprile scorso da Tripoli – le politiche sull’immigrazione e anche “i salvataggi” dei migranti da parte delle autorità libiche, il rapporto dell’Onu confermato da Jan Kubis (548 pagine presentate in contemporanea alle lodi di Draghi ai libici) documenta le faide tra le milizie e gli accordi indicibili con i governi stranieri, il flop dell’embargo sulle armi, le violazioni dei diritti umani, i campi di tortura istituzionalizzati, con il contrabbando di petrolio, armi, droga ed esseri umani. In materia poi di “soddisfazione” su come la Libia effettua il “salvataggio” dei migranti, la Ong Sea Watch ha mostrato al mondo, , le immagini della guardia costiera libica che insegue i migranti in mare a bordo di un gommone, li picchia con un bastone e li riporta sulla costa.

Uccisioni, sparizioni forzate, stupri, arresti e detenzioni arbitrarie, attacchi contro attivisti e difensori dei diritti umani e crimini ispirati dall’odio, libertà d’espressione compromessa, gruppi armati liberi di circolare. Questa la Libia reale che calpesta i diritti umani nella totale impunità, documentata dall’Onu senza possibilità di smentita. A fine marzo erano 3.858 i migranti detenuti in centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale in condizioni estreme, senza un giusto processo e con restrizioni all’accesso umanitario. 10 mila persone sono detenute in centri di detenzione sotto l’autorità di milizie e gruppi armati. Si stima che fra essi vi siano circa 480 donne, di cui 184 non libiche, con 63 minori e bambini.

Gli occhi dei governi stranieri come delle autorità libiche sono chiusi in nome del petrolio, principale fonte di entrate, unica vera posta in gioco dello scontro interno e internazionale. Gli italiani, nel silenzio incredibile di stampa e propaganda filo governativa, hanno deciso l’invio di un contingente militare con duecento persone nel Sahel, regione desertica dell’Africa occidentale, che coinvolge Mauritania, Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso ed è uno dei territori più interessati dalla lotta globale al terrorismo jihadista. Il Consiglio della Ue, su pressione della Francia, ha poi prorogato il mandato della missione Eucap Sahel Mali fino al gennaio del 2023 e le ha assegnato un bilancio di 89 milioni di euro. In chiave libica il Sahel è la regione da cui provengono molti dei mercenari presenti nel Paese e buona parte dei migranti in fuga dalle guerre e dalla fame che tentano dalle coste libiche di raggiungere l’Europa. L’uccisione di Idriss Deby, presidente del Ciad – la porta diretta per la Libia – da parte di bande locali legate a Turchia e Qatar, ha aggravato l’instabilità politica delle regione e complicato la possibile ripresa di unità nazionale libica.

 

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