Per fermare l’aggressione, al tavolo devono sedersi Biden e Putin – di Raniero La Valle

La condanna della aggressione non va a segno se non vede che questa non è in una sequenza duale, ma in una catena che comincia lontano e non finisce qui.

«Invito alla trattativa», «Spiragli di trattativa», «Trattativa, non invio di armi»: sono le parole più sagge che si possono dire dinanzi alla tragedia in corso. Purtroppo però fino ad oggi queste parole si sono rivelate fuori della realtà. Perché una vera trattativa si è rivelata impossibile da Antalya in poi. Tale impossibilità deriva però dall’ermeneutica dei fatti che risulta sbagliata fin dall’inizio ma come vediamo con sgomento è quella che comanda sia tutti i commenti che tutti i comportamenti.

Se le cose stanno come vengono oggi spiegate, per l’Ucraina e la Russia è in gioco la sopravvivenza, per l’una ad opera della Russia, per l’altra ad opera degli Stati Uniti. Putin come si dice “ha aggredito senza ragione Zelensky e deliberatamente ammazza i bambini e bombarda ospedali”, Zelenski non può deludere “il mondo contro Putin” come titolano a tutta pagina i nostri giornali, il mondo per il quale si immola, né può “tradire i suoi concittadini che ferma alla frontiera se hanno compiuto 18 anni, mariti, padri, e li rimanda indietro a combattere in città”; se le cose così vengono raccontate, è chiaro che tutti e due, pur incontrandosi, non hanno in mano la chiave del futuro. Anzi.

È fuori della realtà che Zelensky e Putin si siedano a un tavolo e aggiustino la guerra e il mondo. Ciò è inverosimile. Forse la disperazione farà il miracolo, ma non possiamo fare appello al miracolo. Non è invece inverosimile che al tavolo si siedano Putin e Biden. Anzi è tanto verosimile che già ci stanno, anche se virtualmente per uccidersi.

Se vogliamo tornare a una realtà non virtuale bisogna abbandonare quel racconto della guerra in cui tutti fanno finta di credere e che non è quello vero e unico.  Il fallimento maggiore è quello dei giornalisti che dovrebbero capire e spiegare i fatti come sono veramente (queste sono le “notizie”) e invece sono quasi tutti tragicamente embedded. Per i quali a volte anche Papa Francesco viene indicato come filo-Putin, semplicemente perché, diversamente da tutti gli altri, si pone il problema di una possibile mediazione di pace oltre le narrazioni contrapposte. È questione di vita o di morte “vedere come stanno le cose”, come ha detto Claudio Napoleoni morendo,

La guerra non è tra Russia e Ucraina, e questa è la ragione per cui il continuo ritorno su di essa nel discernere aggredito e aggressore, moralmente più che ineccepibile, è fuorviante, cioè ci porta fuori dalla via della soluzione. Pur ricca di argomenti, la condanna dell’aggressione non va a segno se non vede che questa non è in una sequenza duale, ma in una catena che comincia lontano e non finisce qui. La guerra è tra la Russia e gli Stati Uniti, anzi per essere ancora più veri è tra lo schieramento dei partecipi alle sanzioni sotto la guida americana e la Russia.

Dentro ci siamo anche noi e perciò abbiamo titolo per parlare. In ballo c’è l’assetto del mondo, dopo l’uso perverso della fine dei blocchi, tra gli Stati Uniti che vogliono il comando e tutto “il secolo americano” per sé, la Russia che non vuole essere messa ai margini o esclusa addirittura dal mondo e dalla storia, e la Cina che aspetta. L’Ucraina non c’entra niente anche se oggi paga per tutti e questa è la ragione principale della nostra pietà e del nostro dolore per lei, che è stata gettata da tutte le parti nella fornace senza alcun bisogno.

La vera risposta politica, non impotente e declamatoria (e se vera potrebbe essere meno irrealizzabile di quanto per il 99 per cento oggi appare), sarebbe una immediata trattativa da aprire tra Biden e Putin, che metta subito fuori della tragica scena l’Ucraina con un cessate il fuoco che lasci tutte le bocce ferme come in un fermo immagine, e postuli un mondo capace di sussistere (noi suggeriamo di dargli una Costituzione della Terra).

Se è vero come dicono i generali e i cultori machiavelliani della realpolitik che i negoziati e la pace si fanno tra nemici, quali nemici più veri di questi? Certo ci vorrebbero uomini di un’altra tempra. Ma Biden fin dall’inizio sta nella parte e lo sa benissimo anche se fa la bella figura di chi dice di non volere la guerra, non voler metterci dentro i soldati e la bomba, punendo piuttosto e aspettando il cadavere del nemico. Anche Putin sta assai nella parte e mentre era il più debole ha ostentato la forza di carri e soldati e poi ha compiuto il crimine di metterci la guerra e le bombe, ma più di Biden ha bisogno di uscirne senza arrivare al redde rationem finale. Il lancinante appello del Papa può aprire un varco, ma sono i protagonisti che devono oltrepassarlo, che devono fermare il massacro.

Dunque ci vuole qualcuno che rompa il cerchio magico (diabolico) della falsa ermeneutica corrente, che dica qual è il vero problema, che indichi la vera non impossibile soluzione, che riaccenda la perduta speranza.

Perché la causa dell’Ucraina riguarda il ruolo e il futuro dell’Europa

Ricorsi storici. L’aggressione di Putin ha restituito alla Nato una funzione «persa» con l’89, restaurando il principio gerarchico della presenza militare – e nucleare – Usa, sul territorio europeo Gian Giacomo Migone

Il 30 novembre 1939 Stalin aggredì la Finlandia neutrale, approfittando dell’alleanza temporanea con Hitler, sancita dal patto Ribbentrop-Molotov che, nei mesi precedenti, costituì la premessa per l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Scopo di Stalin era quello di trasformare la Finlandia in uno stato vassallo, presieduto dal presidente del partito comunista finlandese, allora di fede sovietica, di nome Otto Kuusinen.

Tuttavia, la straordinaria difesa finlandese – che utilizzò a suo favore quel “generale inverno” che aveva contribuito alla sconfitta di Napoleone e, in un non lontano futuro, a quella di Hitler e di Mussolini -, insieme con la solidarietà soprattutto della vicina, socialdemocratica e pure neutrale Svezia, costrinse Stalin ad accettare una pace di compromesso. La Finlandia rimase neutrale ed indipendente, Otto Kuusinen dovette emigrare a Mosca, e Stalin accontentarsi di una piccola parte dei territori finlandesi, per poi dedicarsi alla conquista dei paesi baltici come beneficio del patto di non aggressione con Hitler, a sua volta impegnato a conquistare la Polonia.

DAL PUNTA DI VISTA umano quell’aggressione, dimenticata nelle pieghe della Seconda guerra mondiale, era costata circa 200.000 morti, dei quali la maggioranza di nazionalità sovietica.

Dopo circa quattro mesi di guerra, prevalse la parola d’ordine, lanciata dalla vicina Svezia: “Finlands sak aer, la causa della Finlandia è nostra”. Di fronte ad un’altra guerra d’aggressione, a ottant’anni di distanza, non possiamo che dichiarare il nostro orrore per le vittime di qualsiasi guerra: oggi, innanzitutto civili, migranti ucraini in fuga, anche reclute russe. Le devastazioni causate da Putin ci stanno aprendo gli occhi con molto ritardo anche a quelle vittime invece nascoste, che tuttora crescono nello Yemen e che, a centinaia di migliaia, sono state causate da interventi militari, in violazione di ogni norma internazionale – le così dette “coalitions of the willing“, coalizioni dei volonterosi, guidate dagli Stati Uniti – in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, di cui anche noi siamo stati partecipi comprimari e/o fornitori di armi.

NELLO STESSO TEMPO non possiamo non fare nostra quella ormai defunta parola d’ordine, ispirata dalla volontà di un popolo che, a grande maggioranza, rifiuta di sottomettersi all’aggressore, rinunciando alla propria indipendenza: in quanto europei, la causa dell’Ucraina è la nostra. Perché l’Ucraina è parte dell’Europa, attaccata anche in quanto tale. Non sfugga il fatto che la Russia di Putin, con la propria aggressione, ha riesumato la divisione dell’Europa che ha caratterizzato la Guerra fredda, nel non abbastanza breve secolo scorso.

Come non può sfuggirci il fatto che quanto sta avvenendo in Ucraina restituisce alla Nato una funzione che aveva perso con la caduta del Muro, restaurando, almeno in questa fase, un principio gerarchico, fondato su una presenza militare statunitense, anche nucleare, su territorio europeo che, più ancora che in passato (ricordate il principio della doppia chiave?), sfugge al controllo degli Stati – in primis il nostro – che la ospitano. Come constata una prima pagina del New York Times (cfr. 14 marzo, p.1): “La guerra in Ucraina ha sollecitato la più grande revisione della politica estera americana…infondendo agli Stati uniti un nuovo senso di missione e mutando i suoi calcoli strategici nei rapporti con i propri alleati ed avversari”.

COME SPIEGA Alessandro Portelli, (il manifesto, 16 marzo), denunciare la graduale espansione della Nato, fino ai confini della Russia, non è per giustificare la politica di Putin, bensì, al contrario, per imputargli un ulteriore forma di aggressione nei nostri confronti, nel tentativo, per ora riuscito, di reinstaurare un bipolarismo, ad un tempo pericoloso e connivente, che riduce l’Europa a terreno di conflitti e di conquista di soggetti militarmente più forti – oggi Russia e Stati Uniti, in prospettiva la Cina – e priva mezzo miliardo di persone di una voce a livello globale.

PER CONTRIBUIRE A FAR cessare lo scempio in atto di vite umane, l’Europa deve trovare la sua unità politica e prospettiva strategica, ancora pochissimo presente nei consessi di Bruxelles, nella formulazione di un programma di pace che salvaguardi e accolga i fuggiaschi da questa e da ogni guerra, ripartendone equamente l’onere, senza distinzione di provenienza e di colore della pelle; che riconosca la pronta adesione dell’Ucraina all’Unione europea, preservandone l’indipendenza e la neutralità simile ad altri stati membri – opponendosi alle sintomatiche pressioni per l’adesione anche della Svezia e della Finlandia alla Nato, non a caso incoraggiate da provocazioni di Mosca nei loro confronti -, riconoscendo a quella parte dell’Ucraina a prevalente vocazione e lingua russa diritto di autodeterminazione. D’ora in poi chi pone al primo posto la ricerca della pace dovrebbe ricordare il monito del cardinale Martini, secondo cui è necessario rinunci ad una parte di ciò che ritiene giusto.

Mosca accentuerebbe il proprio isolamento sancito dall’Assemblea Generale dell’Onu, spingendosi oltre le pretese a suo tempo definite da Stalin a conclusione della propria aggressione alla Finlandia, né aiuta una soluzione pacifica del conflitto in atto la definizione di Vladimir Putin quale criminale di guerra da parte del presidente degli Stati Uniti. La sede naturale per la ricerca di una soluzione pacifica ed un ritorno alla legalità internazionale resta quella dell’Onu (cfr. Luigi Ferrajoli, il manifesto, 16 marzo) ove l’orientamento multipolare della Cina potrebbe risultare determinante.

QUANTO ALLA RIVENDICAZIONE di diritti e libertà umane, esse risultano assai più credibili nella bocca di coloro che protestano e subiscono conseguenti repressioni in Russia che non in quelle dei nostri governanti occidentali. Si riconosca il valore etico e politico della resistenza ucraina, senza aggiungere guerra alla guerra, armi alle armi, con riferimenti impropri a quella, ad esempio italiana, che si sviluppò militarmente contro un esercito nazista ormai in fuga. Piuttosto, si valuti forme di presenza e testimonianza solidale, da parte di governanti, parlamentari e volontari europei, in un teatro ancora di guerra, come prontamente suggerito da Alex Zanotelli ed altre persone impegnate per la pace.

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