L’attesa di Farouk, morto per un permesso mai arrivato – di Michele Giorgio

GAZA, 01.09.2022

Gaza L’Oms riferisce che tra il 2008 e il 2022, circa il 30% dei permessi dei pazienti è stato negato o ritardato e i richiedenti non hanno ricevuto la risposta definitiva entro la data della loro convocazione in ospedale. Di questi, il 24% erano malati di cancro e il 31% erano bambini.
La Salah Edin Road che attraversa la Striscia di Gaza da nord a sud già da qualche anno si è trasformata in una superstrada ampia nel tratto che va dal capoluogo Gaza city a Khan Yunis. Gli automobilisti la percorrono a velocità sostenuta e i taxisti si esibiscono in frenate improvvise per raccogliere i potenziali clienti in attesa lungo la strada. La Salad Edin è un fiore all’occhiello del Qatar che con le sue generose donazioni funge da bombola d’ossigeno per questo pezzetto di territorio palestinese. Invece nella stradina del rione Maan a Khan Yunis, dove abitano Ashraf e Khulud Abu Naja, non c’è neppure l’asfalto. Solo terra e sabbia. È una delle aree più povere della città.

«Qui, fuori casa, giocava anche il mio Farouq – ci dice Khulud Abu Naja raccontandoci l’inizio della malattia del figlio – fino all’età di tre anni era un bimbo sano, poi un giorno ha cominciato a lamentarsi, aveva dolori alla gamba destra. Da allora è stato l’inferno, la sua crescita si è bloccata ed è peggiorato mese dopo mese. L’ho visto spegnersi lentamente». Farouq Abu Naja, 6 anni, è morto il 25 agosto. Da mesi attendeva il permesso delle autorità israeliane per attraversare il valico di Erez e recarsi all’ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme dove avrebbe dovuto ricevere le terapie adatte per la sua malattia, sconosciute a Gaza dove il sistema sanitario, tra offensive militari israeliane – l’ultima è di un mese fa e ha fatto 49 morti tra cui diversi bambini – e la mancanza di risorse, è vicino al collasso.
Khulud, 29 anni, porta il niqab. Il lungo velo nero le lascia scoperti solo gli occhi. Il capo chino trasmette ugualmente le sue emozioni e il dolore di una mamma che ha perso da poco il suo bambino. Il marito Ashraf è silenzioso, con lo sguardo talvolta perso nel vuoto. A consolare entrambi è la figlia, la sorellina di Farouq, che gioca sugli scalini di casa. «Lei per fortuna è sana, non ha alcun problema» precisa Khulud, che poi tace per qualche secondo, per ascoltare la voce della figlia. La coppia non è in grado di dirci la diagnosi precisa fatta dai medici e il nome della malattia che ha ucciso il loro bambino. Ashraf ci mostra la cartella clinica rilasciata dall’Ospedale Europeo di Khan Yunis in cui si parla genericamente di «regressione dello sviluppo» di una «grave patologia neuromuscolare». Nella stanza scende il silenzio. «Vogliamo altri figli ma temiamo che ci sia qualcosa di genetico dietro la morte di Farouq. Mia moglie ed io siamo cugini di primo grado», interviene Ashraf.
«Se un giorno avrò i mezzi andrò in Egitto, per fare dei test approfonditi» promette l’uomo. Gli Abu Naja hanno fatto di tutto per curare il bambino malgrado siano privi di mezzi. Farouq, affermano, poteva essere curato ma aveva bisogno di cure specialistiche costose e avanzate. E all’ospedale israeliano Hadassah si erano detti disposti a praticarle. A coprire le spese sarebbe stato il ministero della sanità dell’Autorità nazionale palestinese. Il bimbo però all’Hadassah non è mai arrivato, non ha mai ottenuto il permesso delle autorità israeliane per uscire dalla Striscia di Gaza. La sua morte ha riportato i riflettori sui casi di palestinesi, gravemente ammalati, inclusi i bambini, che restano bloccati, talvolta per mesi, prima di poter lasciare la Striscia o che non ottengono mai il via libera.
A Gaza, dove vivono oltre 2,2 milioni di palestinesi, la chemioterapia, la radioterapia e le scansioni Pet/Tc non sono disponibili. Ciò lascia i pazienti che hanno bisogno di farmaci salvavita senza altra scelta che cercare cure all’estero, il più delle volte in Giordania. L’Oms riferisce che tra il 2008 e il 2022, circa il 30% dei permessi dei pazienti è stato negato o ritardato e i richiedenti non hanno ricevuto la risposta definitiva entro la data della loro convocazione in ospedale. Di questi, il 24% erano malati di cancro e il 31% erano bambini. L’Oms registra anche gli 839 decessi di pazienti mentre aspettavano una risposta per il permesso da Israele tra il 2008 e il 2021. Ed è altrettanto significativo che nello stesso periodo il 43% dei bambini ammalati ha lasciato Gaza senza i genitori bloccati dalle autorità israeliane.
Israele smentisce categoricamente di negare il diritto alla salute dei palestinesi di Gaza. E sottolinea che spesso sono proprio i suoi ospedali ad accogliere bambini e adulti palestinesi bisognosi di assistenza medica ad alta specializzazione. «La realtà dei permessi però è davanti agli occhi di tutti», replica una rappresentante di Al Mezan, la ong di Gaza per i diritti umani, rappresentante legale di Farouq, che nei giorni scorsi ha denunciato quanto è accaduto al bambino di Khan Yunis. «Le richieste di permesso di uscita dei pazienti – prosegue – presentate alle autorità israeliane il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione.
Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di Farouq che è spirato giovedì 25 agosto». Al Mezan denuncia anche che dall’inizio del 2022 quattro pazienti palestinesi, inclusi tre bambini, sono morti a causa del rifiuto o del ritardo del rilascio del permesso di uscita: «La vicenda di Farouq è un altro esempio della violazione da parte di Israele del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani e dei suoi obblighi in quanto potenza occupante, in particolare quello di rispettare e garantire la libertà di movimento nei Territori occupati e di garantire il diritto alla salute della popolazione occupata. Ritardare l’accesso alle cure mediche necessarie per un bambino per più di cinque mesi è ingiustificato e grave», si legge nella denuncia. Al Mezan sottolinea che l’ottenimento del permesso non esclude il maltrattamento dei pazienti al valico di Erez. Non pochi vengono rimandati a casa per «motivi di sicurezza». Khulud Abu Naja non riesce a farsene una ragione. «Perché non hanno lasciato passare mio figlio, che male poteva fare un bimbo di sei anni» dice con un filo di voce allargando le braccia.
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