Tommaso Iozzelli - Siamo di fronte a un suicidio mondiale?


It’s a shame to awake in a world of pain. What does it mean when a war has taken over. It’s the same everyday in a hell manmade. What can be saved, and who will be left to hold her? The whole world...World over. It’s a worldwide suicide.

È brutto svegliarsi in un mondo fatto di paura
Che cosa significa quando una guerra viene ripresa?

Ogni giorno è sempre uguale in un inferno artificiale
Cosa può essere salvato e chi rimarrà a mantenerlo?

Il mondo intero, il mondo è finito
È un suicidio mondiale

(Pearl Jam, Worlwide suicide, Pearl Jam , 2006)

Probabilmente, quello che i Pearl Jam, celebre gruppo rock americano di Seattle, da sempre attentissimo alle problematiche legate alle responsabilità dell’uomo derivanti dalle proprie azioni, intendono con “inferno artificiale”, null’altro è che quella devastazione che l’uomo in appena 200 anni è riuscito ad arrecare ai danni del suo habitat. Che poi questo si voglia chiamare ambiente o natura poco importa, l’Italiano quasi impiega ambedue i termini come sinonimi, forse allora sarebbe maggiormente incisivo chiamare in causa il Tedesco, che con il vocabolo Umwelt descrive letteralmente il mondo circostante, che, in una visione assolutamente antropocentrica, non può che non circondare l’uomo, che di conseguenza ne diviene attore, artefice e soprattutto, padrone incontrastato.

D’altra parte non abbiamo molte ragioni di pensare altrimenti, non pare davvero che negli ultimi anni, e neppure in quelli più remoti attraverso i quali la nostra memoria potrebbe perdersi o risultare ben poco affidabile, ci siano stati sovvertimenti tali da smentire o attenuare una tale concezione. O meglio, volendo in parte rettificare l’affermazione, per non sgozzare sull’altare sacrificale dell’oggettività gli ottimisti, gli speranzosi o gli “alternativi”, esempi, modelli, luci virtuose sì esistono, ma sono tali da non creare una costellazione che possa in qualche modo scalzare la sistematicità del modello di dominus naturae che l’umanità ha preteso, si è arrogata e si è preso.

Volendo parlare di “sistemi” e intendendo con essi le entità statuali, non si può certo intravedere nelle delibere e nelle prassi di questi la benché minima volontà, se non di un’inversione di rotta, quanto di una valutazione maggiormente matura degli effetti sconvolgenti dell’attività inquinante e distruttiva dell’ambiente cagionata dalle attività umane. A conferma di quanto appena affermato si può indubbiamente chiamare in causa la Conferenza sul Clima da poco chiusasi a Copenhagen il 18 Dicembre 2009; l’”impegno”, sottoscritto da alcuni fra gli stati maggiormente responsabili di emissioni inquinanti viene addirittura meno al carattere vincolante, o alla sua parvenza, deliberato dal protocollo di Kyoto del 1997, e vede l’ONU attore impotente davanti alla ferrea volontà dei suoi membri più potenti e l’Unione Europea svanire le sue velleità di autorevolezza e influenza sulla scena politica mondiale. Le Nazioni unite chinano il capo e altro non possono se non impegnarsi a una procrastinazione più vana che speranzosa, che si tradurrebbe nell’obiettivo di render vincolante l’intesa entro il 2010. Tuttavia all’interno dell’accordo ci sono elementi contradditori, ossia lo stanziamento di massicci fondi a favore dei paesi in via di sviluppo, i quali, spesso anche per motivi morfologici di esposizione geografica agli effetti più disastrosi dei cambiamenti climatici, si troverebbero a dover sostenere gli urti più devastanti degli sconvolgimenti ambientali e metrologici; come si può da una parte, in sostanza, consentire o continuare ad avallare uno sviluppo irresponsabile da parte di alcuni senza stabilire le adeguate misure, anche in termini di investimenti in materia di sostenibilità, mentre dall’altra, stanziare fondi che altro non costituiscono se non le toppe, le pezze, i cerotti o le bende utili a lenire o curare le ferite che tale inarrestabile tracotanza dei soliti pochi causerebbe ai danni dei soliti deboli? Senz’altro tali misure finanziarie costituiscono una sorta di presa di coscienza dell’aggravarsi di un problema per il quale quindi si dovrà correre ai ripari (da qui lo stanziamento di questi strumenti); molti, e non solo i ben informati sono al corrente quanto i paesi in via di sviluppo siano flagellati da un’altra terribile piaga che non cessa di arrestarsi, bensì che come un’invincibile Idra continua a replicare le proprie teste voraci in forma esponenziale: la fame, che tutto deturpa e tutto divora. E pensare che in uno dei fallimentari vertici Fao tenutosi nel 1996 ci si era dati l’obiettivo di dimezzare la fame nel mondo entro il 2015… e adesso che nei fatti si ammette di lacerare nuovamente le membra già martoriate di molti paesi, si pensa di destinare ingenti risorse per questa nuova falla, con l’incertezza di sottrarre tali preziosi strumenti alla lotta alla fame, mentre governanti corrotti o dalla dubbia levatura politica si preparano a spalancare le bocche voraci della propria ingordigia.

Questi “impegni” alle volte possono sortire effetti ridicoli se solo si pensa che in questo momento la madre terra stia pagando i danni di devastazioni ecologiche già causate nei decenni precedenti: se volessimo metterla in termini automobilistici, tanto per evocare uno dei miti del “progresso”, è come se stessimo guidando a 200 chilometri orari senza avere freni adeguatamente potenti (o senza voler nemmeno compiere un tentativo di frenata). La continua corsa allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali anche da parte dei nuovi attori che si affacciano sul sudicio cortile dell’economia globale, altro non fa che confermare la triste vittoria di un modello di sviluppo di stampo occidentale, legato alle esigenze più terrene del benessere umano. La “sostenibilità” forse perché non è un lucro, non è un affare, non interessa a nessuno: costa fatica, sacrificio, non è redditizia, non s’impone come un modello, si realizza solo su una scala troppo limitata, al limite riesce a causare encomio ed ammirazione. La comprensione, quello che Waldemar Boff nella realizzazione dei suoi programmi di Alfabetizzazione ecologica del Sertão de Carangola presso Petropolis e nella Baixada Fluminense vicino a Rio de Janeiro, chiama “lavoro sulle coscienze”, è un’opera impegnativa, di reiniziazione dell’individuo alla natura.
Sviluppando la consapevolezza nel contatto quotidiano di un rapporto di rispetto con la terra, si può forse non arrivare al successo di vedere compiuta l’ambizione di un cambiamento delle abitudini dell’individuo, ma perlomeno sviluppare la propria responsabilità nella sua condotta quotidiana, la propria consapevolezza di essere anch’esso, purtroppo, una parte integrante di un meccanismo d’ingranaggi inarrestabile, che le consuetudini giornaliere contribuiscono ad ungere: sapere cosa comporta per esempio il gesto quotidiano di girare la chiave nel quadro della nostra automobile oppure anche semplicemente, accendere l’interruttore della luce del corridoio o berci un bicchiere di latte.

Eppure Adamo nel Giardino dell’Eden era tenuto al rispetto ed alla salvaguardia del “Paradiso terrestre”, che poi quindi diverrà “perduto” avviando l’iniziazione dell’uomo alla conoscenza ed a un rapporto con la natura non più di armonia, ma di sfida. Tuttavia non è certo una sorpresa che la lettura del testo contenente tale mito per secoli e secoli abbia propugnato una visione fortemente antropocentrica, che quindi ha forgiato una sorta di autorizzazione derivante da una superiorità “genetica” allo sfruttamento della risorsa naturale, che in una certa misura, sebbene una tale concezione non fosse abbastanza lungimirante da poterlo asserire, relegava inevitabilmente l’uomo sullo stesso piano degli altri esseri del “creato”, in quanto bisognoso di un habitat e di “prede” per il proprio sostentamento. Nonostante questa visione prettamente oggettuale, l’uomo antico aveva imparato a vivere armoniosamente e virtuosamente con la sua Umwelt, avviando un rapporto di rispetto, di parsimonia, oculatezza, riuso.

Il travolgente progresso tecnologico non ha certo saputo andare di pari passo con la saggezza accumulata rispondente alle pratiche appena accennate; davanti a una sempre maggiore facilità e rapidità di risoluzione di problematiche legate ad applicazioni quotidiane legate ai più svariati campi delle attività umane, è come se l’equazione universo=mondo fosse slittata a mondo=ambiente, per la quale l’uomo, scalzato dalla sua centralità all’interno dell’ampio universo, volesse vendicare lo smacco patito a causa di tale destituzione su ciò che si ritrovava intorno a sé. Allora ecco che si assiste a una nuova forma dell’antropocentrismo, la strada maestra proveniente dal Giardino dell’Eden è ormai smarrita e il suo vecchio ospite vaga ed ha ormai preso l’iniziativa di iniziare a battere mille sentieri privi d’orizzonti ma allettanti, arrogandosi la libertà di spalancarli senza alcun scrupolo o responsabilità lungimirante. Tali percorsi deviati portano alla corsa allo sfruttamento indiscriminato e incurante ai danni delle risorse naturali ed alla esplorazione indefessa alla ricerca delle stesse, nonostante le prospettive d’esaurimento si basino su dati scientificamente concreti e non sui cattivi auspici di iettatori o su visionarie profezie apocalittiche.

La scorsa estate, nella piana di Suruì, nel cuore della Baixada Fluminense di Rio de Janeiro insieme al caro Vito Savio, Waldemar Boff, con il suo sguardo sereno e bonario, andava ripetendomi che il “disastro” e non il “suicidio”, il “delitto” della Terra come forse siamo stati abituati a conoscerla finora, fosse inevitabile. Tuttavia sempre nei suoi occhi non mi è mai sfuggita la speranza per il domani, messa in pratica nell’operosità di un tentativo di riavvicinare l’uomo ad un rapporto di rispetto con la sua Umwelt, alla pari degli altri esseri del Creato, al quale sembriamo essere inevitabilmente destinati; e pur ostinandoci a ballare su un Titanic che va a picco in un mare di ghiacci che si sciolgono, magari chissà, un futuro in armonia, anche forzata, con la natura, potrà darci maggiore uguaglianza e pace.