Rubrica/Giovani oggi - a cura di Laura Spaggiari

Non chiedermi se sono felice, “visitami” su Facebook


Silvia è al mare “sotto l’ombrellone con Baricco”, Carlotta ha “ancora 48 ore di studio poi luce vita e libertà!”, Umberto ore 10.49 si è preparato un centrifugato di carote e melone, ma i limoni dove sono?, Elena si è appena dichiarata “fidanzata ufficialmente” con Alberto, una schiera di Mi Piace le ha fatto un ovazione virtuale. Solo alcuni dei frammenti di privata leggerezza vengono appesi sulle porte, o meglio vetrine, della nuova cattedrale virtuale: Facebook. Il libro delle facce, per parlare locale, una sorta di album di famiglia, dove spesso però il termine famiglia si apre anche a persone sconosciute. Una famiglia allargata che assume i tratti di una comunità virtuale, un’agorà dallo spazio dilatato e dalle relazioni liquide. Nella mia pagina di Facebook ho circa 500 amici, ma effettivamente le persone che saluterei incontrandole per strada non sono nemmeno la metà, spaventoso ma sociologicamente intrigante. Da notare il valore semantico della parola amici, invece che contatti, che amplifica e in parte devia il significato del termine. C’è quindi un gap molto profondo tra il nostro mondo relazionale reale e la comunità e l’identità che ci siamo creati, o meglio abbiamo coltivato a livello virtuale, una sorta di cyber orto dove al posto dei semi si piantano fotografie, note, e frasi per esibire chi siamo, o forse chi vorremmo essere. C’è chi lo definisce una sorta di “contagio dal quale è veramente difficile liberarsi”, altri invece una “grande enciclopedia degli individui” dove “puoi farti i fatti degli altri e gli altri possono farsi i fatti tuoi se non hai una vita interessante”. Facebook potrebbe quindi essere paragonato a una sorta di d’immensa libreria, come Borges ci racconta, che contiene tutte le storie, tutte le lingue, tutti i volti, tutto quello che è e che non è esistito, tutte le storie che sono o non sono state pensate… Ma non è così, purtroppo. Spesso su faccia Libro manca il valore della narrazione, ci si racconta a intermittenza attraverso citazioni di altri, link preconfezionati sullo stile “anche io amo ridere!”, ma è valorizzato quello della brevità e dell’immediatezza, scrivo due righe su di me e una comunità virtuale personalizzata può accedere al mio universo d’idee, preferenze, opinioni… In mancanza di un intermediario sicuro e soprattutto visivo tattile c’è un’adesione incondizionata e poco pensata alle preferenze e agli eventi: poco tempo fa organizzai un evento al quale si erano iscritti circa 500 persone e nella situazione reale se ne presentarono circa 50, ma a livello virtuale quelle 500 persone hanno partecipato all’evento, lo conferma la memoria storica della loro bacheca, e ancora una volta il divario reale-virtuale si manifesta.
Facebook penso sia il luogo d’identità ideali, di costruzione di un proprio Io che parte dall’originale per trasformarsi in un Io pensato, costruito e immaginato, un Io che ha lo scopo di esibirsi e farsi amare. Le sfere della famiglia e del vicinato, tipiche della comunità, perdono il loro peso, per essere sostituite dalla sfera dei mille contatti superficiali. Si fanno addirittura passeggiate virtuali (con sconosciuti?), ci si mandano regali digitali, si coltivano campi e si allevano animali grazie all’applicazione Farmville, tutti contadini che non hanno mai toccato una spiga di grano.
La forma talvolta schiaccia la sostanza, l’imperfetto approccio sensoriale: il tono di voce, la mimica facciale, l’odore dell’ambiente. Facebook è una sala d’attesa asettica sotto questo punto di vista, dove c’è spazio per l’intermittenza, l’incostanza, è una miscela d’identità che fatica a riconoscersi come noi. Immagino Facebook come un insieme di isole identitarie che comunicano attraverso una rete aggrovigliata di fili, ma che in sostanza rimangono isole. Il concetto di profilo di Facebook è molto simile a quello di una vetrina, e per questo si avvicina al concetto di intimità fredde, ossia un progressivo raffreddamento delle emozioni che stanno assumendo forme quasi di scambio commerciale. Scelgo con chi interagire, con chi scambiare opinioni, a chi mostrare le mie foto e quale parte di me esibire. Se uscendo di casa struccata rischio d’incontrare il ragazzo che mi piace, sul net questo non succede, posso selezionare con cura le foto da mostrare, con la confortante illusione di poter controllare l’impressione degli altri.
Tuttavia le comunità virtuali riescono a creare quel senso di appartenenza che talvolta la comunità reale, intesa come urbana-politica, non è in grado di generare. Se qualche anno fa un ragazzo ti chiedeva il numero di cellulare o passava direttamente all’appuntamento, oggi la domanda più frequente è: Sei su Facebook? Talvolta diventa quasi uno status, un approccio relazionale, un altro modo di esistere.
Spesso molti per fare gli anticonformisti rifiutano Facebook oppure si cancellano per esasperazione. Questo social network è nato come possibilità d’incontro tra ex compagni di università che si erano dispersi tra i vari stati degli Usa, come strumento di mantenimento di una relazione. Niente più vecchie foto ingiallite o annuari consunti, Marc Zuckerberg inventa un sistema per monitorare gli amici dei vecchi ricordi. Nel 2010 400 milioni di utenti possono scoprirsi in tutto il mondo.
Nonostante quel substrato di alienazione che Facebook può generare può essere anche uno spazio pubblico di confronto politico e intellettuale. Letteratura, musica, video di youtube, attualità è tutta una querelle di materiali che bisogna saper selezionare. Facebook è un assaggio di ciò che siamo, ma il resto della storia dev’essere reale.

Anche se non sarà
Anche se andrai via
Anche se non inizierà
Anche se rimanesse solo come un se
Comunque mi rimarrebbero queste parole
Forse memorabili e certamente
Cestinabili si con due click
Sinistri.
Ma poi il cestino per me
Dove sarebbe.

“Chattando” del Signoredegliabissi