E se dicessimo che i soldi ci sono? – di Antonio De Lellis

Nel giorno della canonizzazione di Oscar Arnulfo Romero abbiamo appreso che verranno deportati gli abitanti di Riace. Una gioia enorme per il popolo sudamericano, del quale faccio parte, e per tutti coloro che hanno sete e fame di giustizia, ma anche una grande e profonda sofferenza per questa Italia incamminata verso il baratro. Riace è un modello di possibile convivenza e armonia tra diversi, Riace è la possibilità di rivitalizzare i piccoli comuni, spina dorsale di un paese che potrebbe ripopolarsi, ma che vuole suicidarsi all’ombra di una politica razzista e xenofoba avviata a dominare la scena politica dei prossimi anni perché basata su una narrazione trentennale di finanza-capitalismo.

Abbiamo tentato di decostruire in tanti modi questa narrazione dominante ed insieme, nel corso di un’assemblea popolare a Napoli sugli audit civici e sul debito, abbiamo contribuito ad abbozzare una possibile contro-narrazione.

L’ordine dei conti che significa sostanzialmente “non ci sono i soldi” e l’ordine delle cose che si tramuta in un “prima gli italiani”, sono le due note iniziali di un ragionamento aberrante che conduce molti ad esclamare: “c’era una volta l’Italia”. Anche se il governo apparentemente mette in discussione “l’ordine dei conti” di Bruxelles, in realtà non tocca l’assioma conseguente: “prima gli italiani”. Ma se provassimo a dire che i soldi ci sono, o si possono trovare o devono essere reimmessi da coloro che li hanno illegittimamente sottratti dal circuito collettivo, e a partire da questo mettere in discussione il debito illegittimo, allora forse riusciremo a considerare che esistono delle organizzazioni che hanno realizzato il cosiddetto delitto perfetto: uccidere, accusare altri e farla franca. Questa èlite, che solo a parole si vuole individuare, ma che nei fatti aiutiamo in tutti i modi, addirittura con la flat tax, aberrazione tributaria e negazione del principio costituzionale della progressività, sono l’espressione della vera disuguaglianza economica e sociale.

Proviamo a riavvolgere il nastro e a ripartire dagli anni settanta. In quegli anni grandi riforme ispirate dalla Costituzione videro la luce ed una stagione di rivendicazioni sociali ed economiche finalmente approdarono nel porto sicuro della giustizia sociale, segno che le lotte coinvolsero grandi strati della popolazione di fronte alle quali i governi dovettero piegarsi. Entrò in vigore una riforma fortemente progressiva dell’Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche), fu deciso l’intervento della Banca d’Italia a tutela del debito italiano, fu introdotta la scala mobile, solo per citare quelle più pertinenti per il discorso in questione. Eventi internazionali mutarono il quadro economico: le crisi petrolifere, in particolare crearono un sistema finanziario importante che iniziò a contare sempre di più. La Banca d’Italia se ne accorse in ritardo e, soprattutto in occasione di alcuni scandali bancari in cui figurarono coalizzati banche private, Ior, mafia, politica e settori deviati dello Stato, cercò di fare luce e chiarezza, ma pagando un prezzo molto alto. La finanza che governava davvero l’Italia e la politica corrotta di quegli anni fecero guerra a tutto quello che poteva ostacolare questo processo inarrestabile di “mutazione genetica” e fecero, questa volta ingiustamente, incriminare i vertici della Banca d’Italia, giusto il tempo di creare le premesse per quello che è stato da molti definito “il colpo di Stato” finanziario ed economico più silenzioso ed efficace dalla fine della seconda guerra mondiale: il divorzio della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro. Dopo questa scelta il nostro debito in rapporto al Pil raddoppia e nulla più resterà come prima. Il divorzio in realtà fu un accordo di non belligeranza. I conflitti, fino a quel momento forti e drammatici tra politica e Banca d’Italia che sostanzialmente vertevano sui rischi dei processi di finanziarizzazione per l’intero assetto internazionale, europeo ed italiano, furono barattati con l’allentamento dei controlli in cambio di un generale abbassamento del livello del conflitto. La politica e la finanza avrebbero lasciato in pace la Banca d’Italia ed in cambio questa avrebbe ridotto i controlli su un sistema finanziario infettato e colluso con la criminalità organizzata e con forti poteri diffusi che vedevano nella finanza ombra, e nella deregolamentazione, il nuovo Eldorado.

Se quello che sto dicendo è forse la prima volta che viene scritto è perché alle riflessioni generali di molti attivisti ora si unisce qualcosa di più strutturato che il Cadtm Italia cerca di mettere a frutto in un incontro nazionale previsto per tutta la giornata del 27 ottobre. Se questo racconto ha una utilità è quella di spiegare come mai gli italiani non possono prendersela con coloro che non erano neanche nati in quegli anni e che non erano neanche presenti in Italia, ma che solo dopo molto tempo approdarono sulle nostre coste in cerca di dignità. Anche le cause attribuite all’Europa finirebbero per ridimensionarsi. Ci siamo fatti mali anche da soli e con noi molti paesi del mondo.

Gli squilibri economici nel mondo, alla base del “non ci sono i soldi” e “prima gli italiani” sono un fenomeno di lungo corso e non il portato della crisi degli ultimi dieci anni. Il drastico allargamento della forbice tra top e down della scala sociale è un tratto caratteristico degli ultimi trent’anni della nostra storia. Fino agli anni Ottanta nei paesi avanzati il divario di ricchezza si era attenuato. Ma nella disuguaglianza c’è un forte vissuto di deprivazione relativa: uno “smottamento” per il Censis; la perdita relativa di ricchezza dei molti nei confronti delle èlites accresce l’invidia e risentimento sociale, alimentano il populismo e l’avventura politica; abbiamo sbagliato a pensare che il processo, molto accelerato, di benessere potesse non avere mai fine. Le dinamiche di privatizzazione, utilizzate come risoluzione dei problemi, rappresentarono in realtà la capitolazione dinanzi ai nuovi padroni del mondo. Se questo è avvenuto da noi figuratevi in Africa ed in Asia dove i conflitti sociali sono sfociati in vere guerre militari su cui abbiamo speculato anche noi italiani.

Partire dall’autogoverno della conoscenza allora è essenziale. Mettere queste conoscenze al servizio di una strategia generale in cui i protagonisti diventino tutti “gli abitanti di un territorio” per una reale presa di coscienza delle effettive cause della nostra condizione economica e sociale in modo da reindirizzare correttamente la rabbia sociale, è il mio impegno e spero di molti di voi.

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