CO-CO-CO-CO-CO: Cobalto, Coltan, Congo, Complicità e Colonialismo

Articoli di Alessandro Spinnato e Francesco Gesualdi con un appuntamento in streaming il 16 marzo più altri link

Repubblica Democratica del CongoUna zona grigia tra conflitti e silenzi della comunità internazionale: sono le sue ricchezze, non la sua povertà, a provocare conflitti e violenze.

di Alessandro Spinnato (*)

Il 22 febbraio 2021, un convoglio del World Food Programme delle Nazioni Unite è stato attaccato vicino a Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Nell’attacco hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci e un autista congolese del WFP, Mustapha Milambo.

Time For Africa, un’organizzazione no-profit che opera nel campo della cooperazione e solidarietà internazionale, ha tenuto un webinar riguardo all’accaduto. L’obiettivo è quello di commemorare le tre vittime e di focalizzare l’attenzione su ciò che avviene in Africa e, in particolare, nella provincia del Kivu della RDC.

I conflitti in quest’area sono causati soprattutto dagli interessi che le grandi multinazionali hanno nei confronti delle ricchezze e dei minerali che si trovano nel sottosuolo congolese. Beni che dovrebbero essere una benedizione, ma che, in realtà, sono diventati una maledizione per molte persone. Uomini, donne e bambini sono infatti costretti a lavorare in condizioni disumane per estrarre i materiali per conto di grandi imprese come Microsoft, Apple e Sony.

Questo perché il sottosuolo congolese è ricco di giacimenti di Coltan e di Cobalto. Si tratta di materiali fondamentali per le batterie degli smartphone e per la fabbricazione di molti apparecchi elettronici. I cittadini che vivono nella regione orientale del Paese sono spesso costretti ad abbandonare le loro case e le loro terre, le quali vengono espropriate per perseguire gli interessi economici dei colossi dell’elettronica. Questi ultimi, come è stato riconosciuto anche dell’ONU, pagano e finanziano i gruppi ribelli, che hanno il solo scopo di cacciare la gente per garantire l’assalto alle immense ricchezze del sottosuolo.

Ciò che sta avvenendo nella RDC è un vero e proprio olocausto che prosegue da più di vent’anni. A oggi si contano più di undici milioni di morti, quarantotto stupri ogni ora e quarantamila bambini ridotti in schiavitù. I colpevoli sono da ricercare, oltre che nelle grandi imprese del settore elettronico, nel mondo occidentale e, più recentemente, anche in quello asiatico e arabo. Molti Paesi stranieri cercano di interferire negli affari congolesi, come sta facendo negli ultimi anni la Cina, interessata anch’essa ai preziosi minerali.

Il problema principale a livello globale è il fatto che la comunità internazionale chiuda gli occhi di fronte alla situazione congolese. Ci si dimentica e si considera conclusa una guerra che non è mai finita. Si tratta infatti di una guerra congelata, di una zona grigia molto pericolosa in cui ormai è naturale che gli scontri siano aperti, dato che colpiscono solo la gente del luogo e il mondo occidentale pensa di esserne escluso. Inoltre, sembra esserci un certo interesse a mantenere instabile e conflittuale questo scenario, in modo da poter prender parte a traffici illeciti di materie prime senza farsi notare e nascondendosi dietro la facciata della guerra.

La provincia del Kivu è sicuramente una delle zone più calde,. Avvengono continui scontri tra i gruppi armati Tutsi, presumibilmente sostenuti dal vicino governo ruandese, e le bande Hutu, che usufruiscono del sostegno finanziario e logistico del Burundi. Il coinvolgimento più o meno diretto dei due Paesi è motivato dalla volontà di destabilizzare la RDC servendosi di milizie etniche per controllare i traffici illeciti di oro, diamanti e minerali.

Inoltre, c’è un altro aspetto da tenere in considerazione. Il comportamento di individualismo sfrenato, da parte dei giovani africani, volto alla ricerca ossessiva della prosperità, che è frutto dell’ultramoderna mentalità globalizzata. Quest’ultima ha cambiato il modo di pensare dei ragazzi ed è stata una conseguenza del fatto che costoro si siano sentiti doppiamente abbandonati. Dallo Stato e dalla comunità internazionale. Si sono quindi affermati nuovi paradigmi sociali all’interno della popolazione. Il modello del giovane aggressivo-competitivo e quello autoritario di libero mercato, il quale sta riempiendo i cuori e le menti dei leader africani.

Stiamo assistendo dunque a una crisi della classe politica congolese, incapace di presentare e portare avanti un progetto comune in cui i cittadini possano credere e riconoscersi. I politici di oggi, purtroppo, non danno la possibilità ai congolesi di poter sognare giorni migliori.

In conclusione, è necessario un cambio di rotta. Oltre che di un progetto politico comune e condiviso, infatti, bisogna soprattutto lavorare sulla diplomazia politica. Occorre mostrare e far sapere alla comunità internazionale ciò che accade in Congo. C’è bisogno di politici capaci che denuncino le barbarie e i crimini disumani che avvengono ogni giorno sul territorio. Servono leader capaci di rompere il leitmotiv della classe politica attuale.

Come sostiene Guido Barbera, uno dei relatori del webinar e presidente del CIPSI (Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionali):

«Per dare un senso alla morte di Luca, Vittorio e Mustapha e a queste tragedie, dobbiamo assumere la loro eredità. Dobbiamo impegnarci insieme per completare ciò che loro non hanno potuto fare, a causa della morte barbara e prematura. Dobbiamo diventare costruttori di pace, giustizia e fraternità. Non possiamo continuare a stare tranquilli, pensando che le guerre e le ingiustizie siano lontano da noi. Si deve avere la forza di cambiare il mondo».

 


 

Metalli: in Italia dal 3 marzo regole forti. Una giusta cura per i conflitti

di Francesco Gesualdi (**)

Il 3 marzo, in forza del decreto 13/2021, diventerà operativa anche in Italia la legislazione europea che obbliga gli importatori di metalli, con provenienza estrattiva da zone segnate da guerre o da altri tipi di conflitti e di rischi, a vigilare sulle filiere di approvvigionamento in modo da escludere qualsiasi connessione con i ‘signori della guerra’ e altri soggetti colpevoli di violazione dei diritti umani.

I minerali in questione sono stagno, tantalio, tungsteno, oro e ci riguardano molto da vicino perché sono di uso comune. Molti di loro contribuiscono alla fabbricazione di cellulari, computer e ogni altro dispositivo elettronico. Ed è un fatto che per il tramite di 400 importatori, la Ue assorbe circa il 35% del commercio mondiale dei quattro minerali in questione, collettivamente indicati con la sigla 3T& G. Non c’è forse modo migliore, nel nostro Paese, per onorare la memoria e l’impegno dell’ambasciatore Luca Attanasio ucciso, con chi accompagnava la sua missione politica e umanitaria, in terra congolese.

Un po’di storia. Il primo Paese ad avere imposto alle imprese importatrici di minerali e metalli l’obbligo di vigilanza sulle filiere di approvvigionamento sono stati gli Stati Uniti, che nel 2010 vararono il così detto Dodd Frank Act.

Constatato che i conflitti presenti in Paesi come, appunto, Repubblica Democratica del Congo, ma anche la gemella Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan del Sud, Ruanda, Uganda, Zambia, Angola, Burundi, Tanzania, erano condotti da regimi e gruppi armati che si finanziano con i proventi derivanti dalla vendita di minerali estratti nei propri territori, non di rado col lavoro forzato spesso minorile, si assunsero misure con lo scopo di interrompere il flusso di denaro che alimenta i conflitti. Anche la società civile europea esercitò tutta la pressione di cui era capace affinché nella Ue si arrivasse a un provvedimento analogo, ma solo nel 2014 la Commissione europea redasse una prima bozza di regolamento nella stessa direzione. Poi, ci vollero altri tre anni per concludere l’iter legislativo e finalmente, nel 2017, il regolamento 821 venne assunto congiuntamente da Parlamento e Consiglio europei. Pur rimandandone l’attuazione al 1° gennaio 2021.

In ambito aziendale il concetto di vigilanza è meglio conosciuto come due diligence, alla lettera ‘dovere di diligenza’, anche traducibile come dovere di perizia, cura, controllo. Un precetto dalla forte valenza morale che trova la sua applicazione nell’adozione di una serie di misure organizzative tese a evitare il rischio di errori, violazioni, omissioni.

Se rispetto a tematiche di carattere fiscale, contabile, tecnico, la due diligence è ormai pratica abbastanza diffusa, non è ancora così sviluppata nei confronti di obiettivi sociali come la tutela dei diritti umani, della dignità del lavoro, del benessere collettivo. Un ritardo preoccupante perché la due diligence è universalmente riconosciuta come un pilastro della responsabilità sociale d’impresa. Non a caso, assieme alla trasparenza e alla disponibilità a porre rimedio alle violazioni, essa è nella strategia-chiave individuata dall’Onu per ottenere il rispetto dei diritti umani in ambito produttivo.

Lo testimoniano i Guiding Principles on Business and Human Rights, le linee guida adottate nel giugno 2011 dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Nel caso dell’importazione di metalli e minerali connessi con zone di guerra, la legislazione europea impone che la due diligence sia condotta secondo le modalità previste dalle linee guida messe a punto dall’Ocse. Esse chiedono che le imprese si dotino di un sistema organizzativo interno capace di tracciare l’intero percorso seguito dai loro prodotti, di conoscere tutti i passaggi di denaro avvenuti nella loro catene di acquisto, di censire tutti gli attori intervenuti a qualsiasi titolo nelle loro filiere di approvvigionamento (imprese estrattive, intermediari commerciali, fonderie, imprese metallurgiche), di eseguire controlli sui fornitori e di sapere imporre azioni correttive in caso di violazioni di qualsiasi genere. Inoltre l’Ocse chiede alle imprese di sottomettersi periodicamente all’azione i- spettiva di soggetti esterni oltre che di redigere rigorosi e completi rapporti annuali.

Varie testimonianze rivelano che in alcune aree minerarie dell’Africa persistono situazioni di violenza e di guerra, in particolare nella regione dei Grandi Laghi, che interessa la Repubblica Democratica del Congo, il Burundi, il Ruanda e l’Uganda. Ma un rapporto redatto nel 2020 dal Gao, il centro studi che compie ricerche per il Congresso degli Stati Uniti, certifica che dal 2008 al 2014 nella zona dei Grandi Laghi si è registrata una riduzione significativa di violenza sessuale, evento sempre collegato a una minore intensità di conflitti armati. Lo stesso periodo è stato anche quello in cui negli Usa si è avuto il maggior numero di imprese che hanno aderito agli obblighi imposti dal Dodd Frank Act. Segno di quanto le imprese possano essere determinanti per il superamento dei conflitti se scelgono la via della responsabilità, della cura e della trasparenza.

Ma come consumatori possiamo giocare anche noi la nostra parte. Seguendo, magari, l’esempio delle 23 guide escursionistiche di Domodossola (‘Avvenire’, 24 febbraio 2021 lettera con risposta del direttore) che hanno scritto a Garmin, la principale compagnia produttrice di strumenti Gps, per sollecitarla a verificare la provenienza dei minerali incorporati nei suoi prodotti, altrettanto possiamo fare noi verso i produttori dei nostri telefonini. Se gli importatori di minerali devono rispondere oltre che alla legge anche a una pressione ‘dal basso’ hanno una ragione di più per comportarsi correttamente. La responsabilità, da qualsiasi parte si attivi, porta sempre buoni frutti.

(**) pubblicato sul quotidiano “Avvenire” de 28 febbraio

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