Brasile: nasce il governo Temer. Nel segno del golpe e sotto i peggiori auspici

BRASILIA-ADISTA. Un altro, decisivo, passo verso il golpe: come ampiamente previsto, il Senato, composto per il 60% da parlamentari con procedimenti giudiziari in corso, ha detto sì (con 55 voti contro 22) all’ammissibilità dell’impeachment della presidente Dilma Rousseff, la quale viene ora sospesa dalla carica per un periodo massimo di sei mesi, in attesa dell’apertura del processo vero e proprio di messa in stato di accusa (allorché sarà necessaria una maggioranza di due terzi dei senatori per ottenere la destituzione definitiva della presidente).

Nessun colpo di scena si è registrato a suo favore, a fronte della bocciatura del ricorso presentato dal governo al Supremo Tribunale Federale e della clamorosa marcia indietro del presidente ad interim della Camera dei deputati, Waldir Maranhão (anche lui, come l’ex presidente Eduardo Cunha a cui è subentrato, coinvolto nell’inchiesta Lava Jato), che il 9 maggio aveva disposto l’annullamento del voto sull’impeachment alla Camera per irregolarità procedurali, ma che già il giorno dopo era tornato sui suoi passi, di fronte alle minacce di espulsione rivoltegli dal suo partito (il Partito Popolare).

Una verità elementare

Ad assumere la presidenza ad interim è il «vice usurpatore» (come lo definisce il Movimento dei Senza Terra) Michel Temer, che subentrerà in maniera definitiva nel caso – dato praticamente per scontato – che il processo termini con la destituzione di Dilma. Ma la cui credibilità, di fronte a quello che si configura a tutti gli effetti come un golpe parlamentare, appare seriamente compromessa, anche a livello internazionale, con danni incalcolabili all’immagine del Brasile.

Non è un caso che, se gli Stati Uniti tacciono – ed è un silenzio dietro a cui è facile vedere un indiretto sostegno a Temer, il cui governo comporterà un automatico riallineamento agli interessi Usa – il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro, dopo aver espresso in varie occasioni il suo sostegno alla presidente, ha annunciato il 10 maggio la decisione di rivolgersi alla Corte Interamericana dei Diritti Umani, sollevando il problema dell’insicurezza giuridica relativo al procedimento di impeachment. Perché una cosa è certa: l’offensiva parlamentare-giudiziario-mediatica scatenatasi contro il governo del Pt non è in grado di nascondere agli occhi del mondo la verità elementare che la messa in stato di accusa in assenza di un reato non è impeachment, ma golpe e che Dilma Rousseff – su cui, è bene ricordarlo, non pesa alcuna accusa di corruzione – nessun reato ha commesso. Come spiega Marcelo Lavenere, ex presidente dell’Ordine degli Avvocati del Brasile e membro della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza dei vescovi brasiliani, in una lettera consegnata al papa, il 9 maggio, dalla giudice Kenarik Boujikian e dalla nota attrice Leticia Sabatella (le due rappresentanti della società brasiliana scelte dai movimenti popolari per illustrare al papa la crisi che sta attraversando il Paese), nessuna delle due infrazioni attribuite alla presidente – la firma di decreti per l’apertura, nel bilancio, di crediti supplementari senza la dovuta autorizzazione amministrativa e il ritardo nella restituzione delle risorse dal Tesoro alla Banca del Brasile in relazione al finanziamento di programmi sociali – giustificano il procedimento di impeachment: nel primo caso, perché i decreti in questione non hanno determinato un aumento delle spese di bilancio (in quanto coperte dalla soppressione di altre voci) e, nel secondo caso, perché il ritardo era permesso dalla Corte dei Conti brasiliana (Tribunal de Conta da União). Ma, spiega Lavenere, neppure se si trattasse di effettive infrazioni, sarebbero tali da configurare il “crimine di responsabilità” richiesto dalla legge per la messa in stato di accusa, in quanto rappresenterebbero comunque atti amministrativi assunti collettivamente – le cosiddette “pedalate fiscali” praticate ordinariamente dal governo federale e, attualmente, da ben 11 governatori – e non atti criminali personali attribuibili alla presidente. Mentre lo stesso non si può dire del nuovo presidente ad interim ed ex alleato di governo Michel Temer, coinvolto, a differenza di Dilma, nell’inchiesta Lava Jato (e condannato dal Tribunale Regionale Elettorale di São Paulo per violazione del limite stabilito dalla legge per i finanziamenti elettorali).

Giochi finiti, invece, per Eduardo Cunha, il grande artefice dell’impeachment, sospeso dalla carica di deputato federale e quindi dalla presidenza della Camera per decisione del Supremo Tribunale Federale, secondo cui l’esponente del Pmdb, con i suoi sei procedimenti giudiziari in corso nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, avrebbe approfittato della sua posizione per tentare di condizionare a suo favore le indagini. E se, alla notizia della sospensione del suo principale avversario, Dilma Rousseff ha commentato con un secco «Meglio tardi che mai», è chiaro che quel ritardo di 5 mesi tra la richiesta di allontanamento di Cunha (presentata ad ottobre) e la decisione della Corte Suprema (adottata il 5 maggio) le è risultato fatale: come ha evidenziato il ministro della Giustizia Eugênio Aragão, se il Supremo Tribunale Federale avesse agito prima, il processo di messa in stato di accusa di Dilma non avrebbe avuto luogo. Cosicché la sospensione del mandato dell’indiscusso protagonista dell’impeachment appena qualche giorno prima della decisiva votazione al Senato non poteva non apparire come una coincidenza sospetta: come evidenzia il sociologo Luiz Alberto Gómez de Souza, se Cunha è stato utile a dare avvio e a portare avanti speditamente il processo di impeachment, la sua figura, nel momento in cui la palla è passata al Senato, non è più funzionale al successo dell’operazione. Di più: potrebbe sporcare l’immagine del nuovo governo.

Un’agenda da incubo

Non che in realtà un corrotto in più o in meno possa fare tanta differenza: il nuovo governo, figlio di un golpe parlamentare in stile honduregno e paraguayano, nasce comunque nel segno dell’illegittimità e dell’assenza di credibilità, a cui concorre decisamente anche la bassissima popolarità del “traditore” Michel Temer, il quale, stando al sondaggio dell’istituto Ibope, può contare su un insignificante 8% delle preferenze (motivo per cui sarebbe il 62% dei brasiliani a chiedere elezioni anticipate). Né può risultare meno indigesto il fatto che Temer – su cui comunque peserà sempre la spada di Damocle dell’apertura di un processo di impeachment identico a quello contro la presidente, avendo egli firmato, in quanto suo vice, gli stessi decreti di variazione di bilancio contestati – sia chiamato a portare avanti un’agenda economica e sociale opposta a quella in base a cui era stato eletto come vicepresidente alle elezioni del 2014. Un’agenda che, andando incontro alle rivendicazioni della bancada BBB (boi, bala, bíblia, cioè la lobby ruralista, quella dell’industria delle armi e quella degli evangelici fondamentalisti), sembra concretizzare tutti i peggiori incubi dei movimenti, dallo smantellamento dei programmi sociali alla privatizzazione del patrimonio nazionale, fino alla criminalizzazione delle organizzazioni popolari e al riallineamento con gli interessi statunitensi (tra le tante misure già ventilate, la revisione delle demarcazioni delle aree indigene, la cancellazione di qualsiasi limite per l’acquisto di terre da parte di imprese straniere, l’ulteriore indebolimento della valutazione ambientale, l’eliminazione dei sussidi all’agricoltura familiare e l’impiego dell’esercito nei conflitti per la terra, vale a dire, in difesa della proprietà privata e contro le occupazioni del Movimento dei Senza Terra). A portare avanti tale agenda sarà una squadra di 22 ministri tutti al maschile, tra cui, alle Finanze, Henrique Meirelles, già presidente della Banca Centrale sotto i governi Lula; agli Esteri, José Serra, ex governatore di San Paolo e due volte candidato alla presidenza con il sostegno delle forze del capitale più reazionarie e filo-statunitensi; alla Difesa, Raul Jungmann, già tristemente noto ministro dello sviluppo agrario del governoCardoso; all’Agricoltura, Blairo Maggi, miliardario produttore di soia e relatore di una proposta di emendamento costituzionale che praticamente elimina la necessità di studi di impatto ambientale per i progetti di opere pubbliche, e, alla Giustizia, Alexandre de Moraes, già distintosi per una spiccata attitudine repressiva nei confronti dei movimenti sociali.

Finisce così l’era Dilma, la quale lascia la presidenza con una serie di misure di segno progressista, ma giunte davvero troppo tardi: quasi il riconoscimento di un errore (quello, come ha affermato Sônia Guajajara dell’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil, di essersi alleata con la parte sbagliata) o, magari, il desiderio di un “ritorno a casa”, là dove avrebbe dovuto fin dall’inizio scegliere di stare: la demarcazione di terre rivendicate da anni da indigeni e afrodiscendenti (in appena due mesi, il ministro della Giustizia Eugênio Aragão ha ottenuto sul fronte del riconoscimento delle aree indigene lo stesso risultato raggiunto dal governo in cinque anni); l’espropriazione di aree per la riforma agraria; un aggiustamento al rialzo, pari al 9%, del programma Bolsa Familia, il più grande programma di trasferimento di reddito dell’era del Pt (richiesto da un tasso di inflazione al 10%).

Quanto ai movimenti, non resta che, come scrive Gilberto Maringoni (Carta Capital, 19/4), «la denuncia, la ribellione, la disobbedienza civile e la lotta. E la necessità urgente di ricostruire non solo la sinistra, ma un nuovo vettore progressista». Con il conforto di sapere che «esiste una sinistra viva e combattiva», come quella espressa dalle coalizioni popolari «nate in questa guerra»: il Fronte Povo sem Medo (Popolo senza Paura) e il Fronte Brasile Popolare, possibili «embrioni di un nuovo polo organizzativo».

Claudia Fanti, Adista

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