Mamma, ti presento Erri De Luca – di Adele De Prisco

Pubblichiamo l’intervista a Erri De Luca di Adele De Prisco

Come state passando questa quarantena? Io ne ho approfittato per guardare qualche film in più, recuperare alcuni romanzi che esulano dal mio programma di studio e per fare due chiacchiere con Erri De Luca.
Con Erri, scrittore, poeta e traduttore, abbiamo parlato di montagna, di libri, di parole, di tenerezza umana, di Napoli, di passato, di attualità e di ricordi.
Le sue parole sembrano arrivare dal profondo del mare di Napoli e mi attirano come il canto d’una sirena. Sono parole che percepisco lente, pesanti e quasi silenziose, come quelle dei suoi romanzi. Sono parole che sanno di riflessione, di pausa, di vita. Una vita che gli si è fermata sul volto e che protegge delicatamente i suoi occhi azzurri avvolgendoli tra le rughe. Rughe di chi ha vissuto e si tiene i ricordi stretti agli angoli della pelle.

Lei è nato a Napoli, città d’amore e di mare, eppure è un amante della montagna, passione che, insieme a quella per la lettura, le ha trasmesso suo padre. In genere per i più la montagna è un luogo di ristoro, di pausa, di riflessione, di isolamento. È un modo per allontanarsi per un po’ dalla quotidianità che ci circonda. Per lei invece cosa rappresenta la montagna?

«Vado in montagna per staccarmi, procurarmi una distanza. La percorro in verticale, raggiungo un punto di massima distanza che può essere una cima, poi rientro. È un passaggio dentro un’immensità indifferente alla mia minuscola presenza, che non è stata invitata e non ha garanzia di lasciapassare. Si sta da intrusi in uno spazio minerale sovrastato dal peso dell’aria. In montagna se ne avverte la consistenza quanto più il fiato si affanna per la quota.»

“In montagna ci si va per nulla che serva a qualcosa perché è bello l’inutile” scrive nel suo ultimo romanzo dal titolo Impossibile edito da Feltrinelli. Mi chiedo allora, cosa intende lei per “inutile”?

«Per inutile intendo senza tornaconto, un’azione fatta al di fuori della partita doppia dare/avere. La bellezza del mondo non appartiene alla categoria dell’utile, anche se da noi è messa a servizio dello sfruttamento turistico. La bellezza è forza di natura e può essere anche terribile.»

A proposito della bella Napoli, molti dei suoi romanzi sono ambientati nella sua città natale così come il suo primo scritto Non ora, non qui. Proprio in questo libro c’è una frase a me molto cara che dice: “Si cresce tacendo, chiudendo gli occhi ogni tanto, si cresce sentendo d’improvviso molta distanza da tutte le persone.” È una frase questa che trovo profondamente veritiera e che allo stesso tempo lascia trasparire un temperamento personale che forse poco si addice ad una città così esuberante e carnale come Napoli. Dunque, come è riuscito a trovare il giusto equilibrio tra la sua anima e il cuore di Partenope?

«Per temperamento sarei dovuto nascere in un fiordo norvegese invece che nei vicoli di Napoli. Ho fatto attrito per tutta l’infanzia e l’adolescenza con la fisicità esorbitante della città, trovando riparo e giustificazione nei libri, rinchiudendomi nel loro isolamento. Erano quelli di mio padre, lettore assiduo che ne portava un pacco a casa in ogni fine settimana. Ma la città con il suo dialetto mi ha formato il sistema nervoso, mi ha determinato come fa una causa con un suo effetto. Sono interamente napoletano.»

Come abbiamo detto prima, suo padre insieme alla passione per la montagna le ha trasmesso anche la passione per la lettura. Che cos’hanno significato per lei i libri e le parole? E quanto l’hanno aiutata nel processo di crescita personale?

«Mi hanno tenuto compagnia, che è un traguardo tale da poter dire ancora oggi che grazie a loro non ho mai conosciuto la noia. Poi per effetto secondario i libri aumentano la proprietà di linguaggio del lettore, lo rendono cittadino della propria lingua. Si sente dire ogni tanto:” Non ci sono parole”. Chi dice così, si sbaglia. Ci sono, la loro combinazione ha governato e ammansito l’indescrivibile. Da lettore ho potuto meravigliarmi innumerevoli volte della loro capacità di rivelazione. Lei qui mi interroga come scrittore, ma io mi considero principalmente un lettore.»

La sua è una prosa ferma, secca, profonda e paziente, fatta per lo più di frasi brevi quasi come se non volesse sprecare troppo le parole. Quanto peso hanno per lei le parole e, secondo lei, perché le persone continuano a farne un uso così improprio?

«I miei racconti sono un resto di vita attraversata, conosciuta, svolta da me e nei paraggi. Perciò la prosa è come vita in polvere, disidratata, un grumo solido.
In ogni tempo, comunque, le parole sono state maltrattate, ma il loro cattivo uso non danneggia il vocabolario, nuoce solo a chi lo usa male, perdendo credibilità e, abusandone, annoia. Ora sono qui a rispondere alle sue domande, ma se non fossi tenuto a questa formula e ci trovassimo invece seduti da qualche parte, starei zitto, preferendo ascoltarla. In questo periodo di isolamento posso dire di trovarmi a mio agio.»

Quando ha deciso di regalare le sue parole rendendole pubbliche?

«Non sono così generoso, le mie storie le vendo all’editore e un lettore le acquista. In qualche caso ho dato anche storie gratis, ma a piccoli editori per sostegno. Comunque ho scritto fin da ragazzino. Verso i quarant’anni un mio dattiloscritto è arrivato in lettura a Feltrinelli che mi ha proposto la pubblicazione. Non spedivo malloppi agli editori, fu un caso fortuito. Accettai. All’epoca svolgevo già da vari anni mestieri manuali e li ho proseguiti per altri sette anni, prima che i diritti di autore mi facessero sospendere la necessità.»

Nella vita è stato di tutto: operaio, camionista, magazziniere, muratore sia in Italia che all’estero. A differenza di tanti altri lei non nasconde chi è stato e lo ricorda senza vergogna. Son certa che tutte queste esperienze le hanno regalo un immenso bagaglio emotivo che si cela minuziosamente tra le righe dei suoi scritti. C’è un’esperienza in particolare che l’ha segnata come scrittore, un’esperienza che ancora oggi non riesce a dimenticare? Quando il passato può davvero essere definito tale?

«Diverse circostanze della mia vita hanno determinato la persona che sono, prima dello scrittore. Isolarne una o qualcuna mi è impossibile. Di alcune mi è stato impossibile anche scriverne. Il passato invece è un tempo del verbo, per me però è tutto presente, ogni momento che affiora al ricordo è tempo presente. Uso più raramente i verbi al futuro.»

Cambiamo totalmente argomento.

Come lei ben sa, la situazione nel nostro paese peggiora giorno dopo giorno a causa di questa pandemia che piano piano ci sta risucchiando tutte le energie. Ogni giorno le poche notizie buone vengono oscurate da quelle cattive che, come granellini di sabbia, si infilano nelle parti più piccole dei nostri pensieri. Le città nude ci sembrano il preludio di un’apocalisse e seppur è giusto che sia così ora come ora, ci fa comunque paura. Ma forse non abbastanza.
Ancora oggi una fetta di persone continua ad ignorare i decreti imposti dal governo tanto che persino i grandi della terra – anche se non sempre son grandi di spirito – non sanno più come chiedere agli uomini di essere tali. Cosa pensa di questo poco senso civico?

«Vedo invece uno spirito civico risorto che ha fatto adottare le misure di restrizione alla stragrande maggioranza della nostra comunità. Vedo un tempo sospeso che fa spalancare gli occhi e le orecchie alle persone, le fa guardare intorno e accorgersi di un intervallo, di un rallentamento e della vastità delle giornate. È una cura severa, trascina lutti e impone di considerare la vita umana il solo capitale da salvare. Zitti gli economisti, l’autorità spetta ai medici. I governi si occupano della protezione dei cittadini e non del PIL. Tornare a una normalità sarà possibile, tornare a prima, no.»

Izet Sarajlić scrisse: “O tenerezza umana,/ dove sei?/ Forse solo/ nei libri». Da umanista, secondo lei dov’è finita la tenerezza umana di questi tempi?

«È nella premura di chi si occupa degli anziani, dei senzatetto, degli ammalati. Izet Sarajlic non l’ha deposta mai la sua tenerezza. Siamo stati fratelli per sua volontà, dicendo che noi due eravamo i fratelli Grimm nel 1900.»

Secondo lei perché la prima reazione da parte della massa è stata quella di scappare pur sapendo di poter mettere a rischio i propri cari, o quella di assaltare i supermercati pur coscienti che non stiamo affrontando nessuna crisi alimentare?

«La prima reazione è stata di sfiducia nelle assicurazioni del governo circa i rifornimenti, da qui l’ansia di fare scorte. Poi ci si è accorti che le parole pubbliche corrispondevano ai fatti e questa era una novità. Poi i molti meridionali al nord hanno sentito il desiderio forte e naturale di affrontare insieme ai propri cari, al proprio luogo e al proprio dialetto, il lungo isolamento previsto. Non li biasimo. Comprendo però che alcune regioni meridionali abbiano cercato di arrestare il flusso di rientro.»

Lei crede che un giorno l’essere umano sarà capace di trarne qualcosa di positivo da tutto questo?

«Immagino che questo periodo verrà ricordato con affetto più che con sgomento.»

Ha dalle letture da consigliarci per questi giorni?

“Raccomando l’ingresso del libro numero uno in una casa che non ne ha nessuno. Ha un effetto misterioso, un improvviso arredo, un fiore su un balcone abbandonato. Per chi già dispone di uno scaffale, propongo di rileggere libri di molte pagine o di procurarsene uno di varie centinaia. Potrà combinarsi con la clausura e diventare indimenticabile”.

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