Trent’anni fa l’arresto di Totò Riina ma la lotta alla mafia non è ancora finita – di Gian Carlo Caselli

Il 15 gennaio del 1993 viene catturato il boss di Corleone. Nulla sarà più come prima. Le cosche reagiscono con ferocia.

Lo Stato si impone senza però chiudere la partita. Realizzò una sequenza di omicidi politici che decapitarono i vertici del potere. Dopo il suo arresto 650 criminali sono stati condannati all’ergastolo.

Dopo le stragi del 1992 (Capaci e via d’Amelio) decido di chiedere il trasferimento da Torino a Palermo. Il 17 dicembre il CSM mi nomina capo della procura. Ero già “carico”, ma a motivarmi ancor più ci pensò Nino Caponnetto, in un incontro fra amici a Sariano (Rovigo), raccontandomi con vibrante profondità di Falcone e Borsellino, come mai nessuno era riuscito a fare.

Pochi giorni prima della mia partenza per Palermo, il Comandante dei CC del Piemonte mi comunica che a Borgomanero era stato fermato un tal “Balduccio” di Maggio, già autista di Riina, che sosteneva di poter portare al suo arresto. Avverto subito Mori, capo dei Ros di Palermo, e Aliquò, il magistrato che reggeva la procura. Poi organizzo il trasferimento immediato del Di Maggio in Sicilia.

II 15 gennaio 1993 – esattamente trent’anni fa – Riina viene ammanettato da un nucleo di CC dei ROS guidato dal capitano “Ultimo” (Sergio De Caprio). Questi – già a buon punto con le indagini – aveva completato il puzzle con le indicazioni di “Balduccio”, che non aveva millantato.

Arrivo a Palermo per insediarmi in Procura lo stesso giorno, 15 gennaio 1993. Mi accoglie e deflagra come un fulmine la notizia della cattura di Riina. Il capo della “cupola”, latitante da più di vent’anni, si potrà finalmente guardare in faccia mentre sta nella “gabbia” degli imputati detenuti. Mi dico che Falcone e Borsellino hanno avuto ragione: la mafia si può abbattere; purché lo si voglia davvero. La cattura di Riina è quindi un successo storico straordinario (nonostante l’appendice velenosa della mancata perquisizione del covo).

Salvatore Riina, detto “Totò u curtu” per la sua bassa statura, nasce a Corleone il 16 novembre 1930 (morirà nel carcere di Parma il 17 novembre 2017). Con lui Cosa nostra si trasforma in una dittatura fondata sul terrore. Migliaia di mafiosi “dissidenti” vengono uccisi o costretti a fuggire. Ma lo stesso terrore valeva all’esterno, verso gli uomini della società e dello stato considerati da Riina “nemici”. Per conservare i suoi privilegi e il suo potere, Riina realizza una spaventosa sequenza di omicidi di politi­ci, magistrati, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri, giornalisti, uomini della società civile. Una spietata strategia culminata con l’omicidio del generale-prefetto dalla Chiesa. Mai, in nessun Paese al mondo, vi è stata una simile ecatombe. Una decapitazione così sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali. Mai.

E dopo la conclusione del maxiprocesso, quando per la prima vota i mafiosi vengono condannati definitivamente a lunghe pene o a vita, Riina ordina le stragi di Capaci e via D’Amelio della primavera-estate 1992 contro gli odiati “responsabili”, Falcone e Borsellino.

L’importanza storica della cattura di Riina sta anche nel fatto che innesca una efficace reazione dello stato. La procura di Palermo mette a punto, in continuità con Falcone e Borsellino, una strategia giudiziaria fondata, non sul “semplice” contenimento dell’emergenza, ma su una visione complessiva della mafia e del suo sistema di relazioni con l’economia e la politica. Le indagini (grazie al lavoro della polizia giudiziaria in tutte le sue articolazioni e al forte sostegno della Palermo delle “lenzuola bianche”) portano a successi di rilievo. Dopo Riina vengono catturati e processati – con condanne per ben 650 ergastoli oltre ad un’infinità di anni di reclusione – capi, gregari e killer di Cosa nostra, tra cui pericolosissimi latitanti del calibro di Raffaele Ganci, Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Gaspare Spatuzza e decine di altri.

La conseguenza, dirompente, è un sensibile disorientamento: sia nel popolo mafioso, che viene decimato con centinaia di arresti; sia sulle relazioni esterne, che registrano una presa di distanza dei settori della società e delle istituzioni in passato disponibili a fornire appoggi e coperture. Sembra che Cosa nostra sia finalmente alle corde. Lo stato di grave difficoltà in cui versa è evidenziato dalla slavina di uomini d’onore arrestati che decidono in tempi brevissimi di collaborare con la magistratura.

Ma ecco un copione che si ripete: la risposta dello stato alla mafia è altalenante, ondivaga. Da sempre un’antimafia dello stop and go. Sulla scia di delitti clamorosi, un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica determina una forte reazione dello stato. Ma non appena rischiano di venire alla luce gli scheletri nell’armadio di chi fa affari con i mafiosi, cala il silenzio e la mafia non è più un’emergenza. Al contrasto si preferiscono rapporti di sostanziale convivenza con la mafia, i cui “servizi” fanno comodo a tanti. È accaduto anche per la stagione apertasi con la cattura di Riina. Ma questa è un’altra storia: quella di una ciclica “marcia del gambero” che arriva fino ai giorni nostri.

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