Una nuova generazione di leader autoritari sta utilizzando il cambiamento climatico e i profughi ambientali e delle guerre per prendere il potere.
Per spiegare il rapporto emergente tra autoritarismo e cambiamento climatico, Samuel Miller McDonald, un ricercatore della School School of Geography and the Environment dell’Università di Oxford, fa l’esempio delle Maldive, il piccolo Stato insulare di atolli paradisiaci retto da una feroce dittatura islamista della quale i turisti (anche quelli italiani che tornano a casa e postano su Facebook invettive islamofobe) non sembrano accorgersi.
Nell’articolo “Climate Kings” pubblicato su The New Republic, Miller McDonald ricorda che la maggioranza delle Maldive entro la fine del secolo verrà inghiottita dal mare, una cosa che preoccupava molto il primo presidente democraticamente eletto del Paese, Mohamed Nasheed, che fin dal suo insediamento nel 2008 aveva avviato misure di adattamento al cambiamento climatico, fino ad annunciare piani di evacuazione per trasferire 360.000 cittadini maldiviani in nuove territori da acquistare nello Sri Lanka, in India o in Australia. Nasheed aveva anche promesso di far diventare le Maldive il primo Paese del mondo a emissioni zero e aveva conquistato l’attenzione mediatica globale riunendo sott’acqua il suo governo per discutere i pericoli del riscaldamento globale.
Nasheed era ed è un democratico progressista e ambientalista e, poco prima di essere defenestrato aveva detto: «Quel che dobbiamo fare è niente di meno che de-carbonizzare l’intera economia globale. Se l’uomo può camminare sulla luna, possiamo unirci per sconfiggere il nostro comune nemico: il carbonio».
Nel 2012, dopo proteste per l’aumento dei prezzi delle materie prime e la stagnazione economica orchestrate dall’opposizione islamista, un golpe militare ha deposto Nasheed, costringendolo a fuggire dalle Maldive con la minaccia delle armi. Al potere è stato insediato Abdulla Yameen, che ha subito sospeso alcune parti della costituzione per poter arrestare gli oppositori, compresi 5 giudici della Corte Suprema e persino il suo fratellastro. Intanto Yameen applicava la legge islamica e rottamava i piani di adattamento climatico di Nasheed e i programmi di energia rinnovabile.
Il dittatore populista e islamista delle Maldive vuole invece costruire nuove isole ed economic free zones per attrarre un élite globale. Nel 2017 il ministro dell’ambiente delle Maldive Thoriq Ibrahim ha sancito in un’intervista a The Guardian la fine delle politiche climatiche di Nasheed: «Non abbiamo bisogno di riunioni di governo sott’acqua, Non abbiamo bisogno di andare da nessuna parte. Abbiamo bisogno di sviluppo».
Miller McDonald scrive che «Se si può trarre qualche lezione dalla lotta per il potere nelle Maldive, è che le persone che si sentono minacciate da una forza esterna, siano invasori stranieri o maree in aumento, spesso cercano rassicurazione. Questa rassicurazione può arrivare sotto la forma di un leader uomo forte, qualcuno che dice loro che tutto andrà bene, che l’economia crescerà, le dighe in mare reggeranno. Le persone devono solo rinunciare alle elezioni o a un processo giusto fino alla risoluzione della crisi. Questa è forse la minaccia più trascurata dei cambiamenti climatici: importanti cambiamenti nel clima globale potrebbero dar vita a una nuova generazione di governanti autoritari, non solo nei Paesi più poveri o con istituzioni democratiche deboli, ma anche in nazioni industrializzate ricche». E ogni riferimento a Paesi come gli Usa e l’Italia non è casuale.
Infatti, il ricercatore dell’università di Oxford fa notare che «Crisi dei rifugiati, carestia, siccità: questi sono i materiali che gli uomini forti possono usare per costruire il potere. Già, il conflitto e l’instabilità civile si stanno diffondendo in tutto il Sud del mondo, con siccità e inondazioni che alimentano conflitti e crisi di rifugiati in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente» ed è da lì che viene la benzina dell’instabilità e lo spauracchio dei migranti che hanno portato al potere le neo-destre in Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Austria, Italia…
Secondo lo studio “Social and economic impacts of climate”, pubblicato nel settembre 2016 su Science da Tamma Carleton e Solomon Hsiang dell’università della California – Berkley, entro il 2030 il cambiamento climatico aumenterà del 50% il rischio di conflitti armati in Africa, da dove vengono i profughi che Salvini vorrebbe fermare con le motovedette regalate alle milizie islamiste che sostengono il governo “ufficiale” libico. L’area più a rischio sembra quella dell’Africa orientale, dove è ancora in corso il conflitto genocida nel Darfur in Sudan e si è appena sopita la guerra civile del Sud Sudan, mentre Etiopia ed Eritrea cercano una fragile pace. Per non parlare di un’altra ex colonia italiana, la Somalia che era e resta uno Stato fantasma spappolato e dissanguato da conflitti tribali e dal fanatismo islamista degli Al-Shabaab.
Ma Miller McDonald fa notare che il virus dell’autoritarismo non risparmia nemmeno economie e democrazie più robuste come il Kenya, dove «Una siccità paralizzante ha portato a una rapida inflazione dei prezzi dei generi alimentari, raddoppiando dal 2014 il numero di persone insicure. Questo, e le dispute sul possesso della terra nella regione di Laikipia, a nord di Nairobi, ha contribuito a innescare scontri violenti, minacciando la stabilità politica del Paese». Instabilità di cui ha approfittato subito il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta stringendo ancora di più la sua presa sul potere. Nell’ottobre 2017, dopo essere stato accusato di aver truccato il primo turno delle elezioni presidenziali, Kenyatta dichiarò il disastro nazionale per siccità a poche settimane e settimane dal secondo turno delle elezioni ed è così che è stato rieletto in mezzo al caos, tra le proteste di piazza brutalmente sedate con la scusa dell’emergenza e impadronendosi dei media per mettere a tacere i suoi avversari.
Miller McDonald avverte «Non sono solo le nazioni in via di sviluppo a rischio di un autoritarismo opportunistico alimentato dal clima. I Paesi ricchi possono possedere le risorse per isolarsi dagli impatti fisici a breve termine dei cambiamenti climatici: possono permettersi le dighe marittime, i servizi di emergenza e l’aria condizionata. Ma quando i conflitti sulle risorse scoppiano nel mondo in via di sviluppo, sono destinati a generare crisi che si riversano nei Paesi più ricchi».
E, pensando proprio ai profughi e alle politiche per “contenerli”, è ormai famoso lo studio “Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought” pubblicato nel 2015 su Proceedings of the National Academy of Sciences da un team dell’Università della California – Santa Barbara e della Columbia University che ha collegato la siccità che dal 2007 al 2010 ha devastato la Mezzaluna fertile tra Iraq e Siria, che ha causato insicurezza idrica e agricola e mortalità del bestiame. alla guerra civile siriana iniziata nel 2011, che – anche grazie agli interventi armati stranieri – ha costretto milioni di persone a cercare rifugio in Europa, quella che qualcuno chiama “la pacchia”. Miller McDonald ricorda che «Il loro arrivo ha contribuito a alimentare movimenti antidemocratici in tutto il continente». Jonathan Weiler, coautore di Authoritarianism and Polarization in American Politics. Concorda: «Persino lo spettro delle crisi dei rifugiati e degli spostamenti di popolazione possono avere un impatto sull’autoritarismo».
E si tratta di paure che non sono destinate a diminuire: secondo il “The Lancet Countdown’s 2017 report”, entro la metà del XXI secolo il clima sempre più estremo potrebbe costringere a migrare fino a un miliardo di persone in tutto il mondo e Miller McDonald conclude: «Una migrazione umana senza precedenti influenzerà senza dubbio la politica dei Paesi ricchi, spingendoli a destra.
Il modo migliore per contrastare questo fenomeno è naturalmente fermare, o almeno rallentare, gli effetti dei cambiamenti climatici. Finora, l’accordo di Parigi è l’unico risultato tangibile di quegli sforzi, e il suo destino è tutt’altro che certo, con gli Stati Uniti che minacciano di ritirarsi. Ma questo potrebbe cambiare, se i problemi causati dai cambiamenti climatici -non solo gli uragani più forti, la siccità e l’innalzamento dei mari, ma la spaccatura politica- continueranno ad approdare sulle coste scomparse dei governi ricchi».
(In dialogo n° 125 settembre 2019)