Djamila Ribeiro: «Nella nostra società il razzismo è un progetto» – intervista di Gloria Paiva

Djamila Ribeiro è autrice di molte opere legate al tema. Nel 2019, era nella lista della Bbc tra le 100 donne più influenti al mondo e tra le 100 persone sotto i 40 anni più influenti al mondo per l’Onu.

Nel 2020, le proteste antirazziste hanno raggiunto record storici negli Stati uniti sono state le più grandi dalla morte di Martin Luther King Jr. e sono arrivate in Brasile spinte dall’omicidio di João Alberto Silveira Freitas, picchiato dalle guardie di sicurezza in un supermercato di Porto Alegre. Questo stesso anno, il vicepresidente brasiliano Hamilton Mourão ha affermato che il razzismo non esiste in Brasile, un paese che uccide violentemente un giovane nero ogni 23 minuti, secondo le Nazioni Unite. Forse Mourão dovrebbe leggere il libro Pequeno Manual Antirracista (Piccolo Manuale Antirazzista, ancora non tradotto in italiano), scritto dalla filosofa e ricercatrice accademica Djamila Ribeiro, che è stato in cima alla lista dei libri più venduti dell’anno per diverse settimane. Djamila Ribeiro è autrice di altre opere legate al tema. 

Nel suo nuovo libro, Ribeiro spiega i pilastri del razzismo brasiliano, riflette sui privilegi dei bianchi e impartisce dieci lezioni per cercare di ridurre il cosiddetto razzismo strutturale. 

L’intervista.

In questo momento in cui il governo brasiliano ignora le disuguaglianze razziali, qual è l’importanza di discutere pubblicamente la questione? 

Siamo un paese che ha a lungo negato l’esistenza del razzismo e ha romanticizzato l’idea di democrazia razziale. ‘Ciò ha reso difficile per la popolazione riflettere profondamente su cosa sia il razzismo. Il razzismo è un progetto, quindi deve esserlo anche l’antirazzismo. 

Ciò comporta la lettura di scrittori e scrittrici neri, la ricerca della conoscenza e la riflessione su quello che deve essere un progetto legato alla democrazia. Non è un discorso di identità: in una società razzista non c’è democrazia, come non c’è democrazia in una società capitalista e sessista. 

Cos’è il cosiddetto razzismo strutturale brasiliano?

Siamo stati uno degli ultimi paesi al mondo ad abolire la schiavitù (nel 1888, ndr), che è stata alla base della nostra economia per quasi 4 secoli. Nel periodo post-abolizione, il governo non ha creato politiche pubbliche di riparazione o inserimento, al contrario: c’è stato un forte incentivo per l’arrivo degli immigrati europei, in conformità alla cosiddetta politica ufficiale per lo sbiancamento della popolazione brasiliana. Molti di questi immigrati hanno ricevuto terreni dallo stato brasiliano. La popolazione nera, invece, sfruttata per quasi quattro secoli, non ha avuto accesso alla terra e ai diritti. 

Ciò ha portato a un processo di favelizzazione nelle grandi città e ad un’immensa disuguaglianza materiale che dura fino ad oggigiorno. 

Il Brasile non aveva la segregazione legale come negli Stati uniti, ma aveva e ha ancora la segregazione istituzionale.  La popolazione povera è povera perché nera. 

Nel suo libro, indaga il motivo per cui è impossibile non essere razzisti essendo cresciuti in una società razzista. Può riassumere questa idea? 

Anche quando un bianco dice «Non sono un razzista», ciò non dipende dalla sua volontà, perché strutturalmente continua a trarre vantaggio dal razzismo. La persona bianca guadagna di più, subisce meno la violenza della polizia, i suoi diritti non sono ostacolati dal fatto che è bianca. Vedrà persone come lei in televisione e in politica. 

Perciò non basta dichiararsi antirazzisti. È necessario essere antirazzisti e pensare ad azioni per combattere il razzismo dal proprio punto di vista di persona beneficiata: se sei un datore di lavoro, creando politiche della diversità, se sei un insegnante, portando il tema in classe, eccetera. 

In Europa, il dibattito sul razzismo è spesso associato al tema della xenofobia e ai dibattiti sull’immigrazione. Ma il razzismo è anche alla base della società europea. Come può il dibattito brasiliano servire da ispirazione per l’Europa? 

L’Europa non può esimersi dal dibattito sulle conseguenze del colonialismo. Molti paesi europei colonizzarono paesi in Africa, si arricchirono con il loro sfruttamento e, oggi, le persone lasciano questi paesi a causa dei risultati del colonialismo e del neocolonialismo. 

Se la maggior parte dei paesi sfruttati sono di popolazione nera, la componente razziale è fondamentale in questo dibattito.

La mancanza di responsabilità per i processi di colonizzazione fa sì che l’Europa si presenti quale luogo civilizzato, continente sviluppato e intoccabile, ma a che prezzo è stato costruito tutto ciò? 

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