Il sangue di Mohammed Allan è sulle nostre mani – Gideon Levy

Uno stato nel quale centinaia di persone sono recluse senza processo non è una democrazia e tutti i pretesti sulla sicurezza non reggono.

Gideon Levy – Haaretz 15 agosto 2015

Mentre centinaia di persone protestano al di fuori dell’ospedale, Mohammed Allaan  sta morendo – e con lui la democrazia.

Fuori del Centro Medico Soroka a Be’er Sheva sono centinaia i dimostranti a sostegno del prigioniero Mohammed Allaan in sciopero della fame.

Il sangue di Mohammed Allaan è sulle nostre mani, sulle mani dello Stato di Israele. Lo Stato porterà la completa responsabilità se, speriamo ciò non accada, egli morirà. Nessuna scusa coprirà la vergogna, nessuna propaganda laverà la colpa.  Mentre scrivo, sabato pomeriggio, egli sta tra la vita e la morte, in coma farmacologico, attaccato ad un respiratore. La morte di questo avvocato di 31 anni del villaggio di Einabus non solo “danneggerà l’immagine di Israele” e causerà un incendio in Cisgiordania e a Gaza, ma, soprattutto, Allaan sarà la vittima di una dei pilastri dell’ occupazione israeliana: la detenzione amministrativa. E’ questo che non si vuole vedere.

Allan è un combattente per la libertà. Non c’è niente e nessuno che possano rappresentare meglio questa descrizione, nessun altro modo per descriverlo. Allaan sta scioperando fino alla morte per la libertà, cui ha diritto secondo tutti i criteri costituzionali, democratici ed etici. Sebbene i teppisti di Ashkelon e i suoi violenti nazionalisti gridino mille volte chiamandolo “terrorista”, sebbene la televisione istighi con i suoi reportage, dicendo che Allaan ha “il sangue sulle sue mani”, Allaan rimarrà un combattente per la libertà, innocente.

 

Rammentiamo che egli non ha mai ricevuto un capo d’accusa e non è mai stato portato davanti ad un tribunale. Le forze della sicurezza non hanno portato uno straccio di prova contro di lui o contro le centinaia di suoi amici, neppure una prova che possa sviare il tribunale militare, cosa molto comune in un sistema che non ha alcuna relazione con la giustizia.

Non è un caso che tutti i prigionieri che hanno fatto lo sciopero della fame fossero trattenuti in regime di detenzione amministrativa. Non lottavano contro le colonie o contro l’occupazione. Si sono battuti per la propria libertà personale che è un loro diritto assoluto. Non sono prigionieri, sono prigionieri dell’arbitrarietà. La loro detenzione amministrativa è diventata una terribile normalità, ovvia come un checkpoint, le uccisioni senza senso e i rapimenti nel corso della notte. Negli ultimi 15 anni il numero di questi detenuti è variato dai 150 ai 1000. Anche nei momenti di maggior calma, il loro numero non diminuisce. In questo momento sono 400. In altre parole, ci sono centinaia di persone detenute senza processo in Israele.

Se vi è una ragione per rivolgersi al Tribunale Penale Internazionale, questa è una, forse ancora prima delle uccisioni, delle espulsioni, e delle colonie. Se c’è una prova che possa smantellare la bugia circa “l’unica democrazia nel medio-oriente”, questa lo è.   Se nelle prigioni  di uno stato sono confinate centinaia di persone senza processo, quello stato non è una democrazia. E tutti i pretesti della sicurezza non aiuteranno. Non esiste, non è mai esistita e mai esisterà una democrazia con arresti di massa senza processo.

Allaan sa tutto ciò. Lui e i suoi amici si sono rivolti allo loro arma privata, non violenta, fino alla morte: lo sciopero della fame, perché la giustizia non sta dalla loro parte. Perché non c’è altra giustizia che può spiegare la loro detenzione se non la giustizia dei teppisti di Ashkelon e di chi è come loro.

Libertà o morte, Israele si sarebbe dovuto inchinare in ammirazione per la loro determinazione, la giustezza delle loro ragioni e del loro coraggio.

Allaan sta morendo e con lui la pretesa che Israele sia una democrazia. Israele teme il danno che potrebbe derivarne. La maggioranza dei suoi esperti legali sta in silenzio e la maggior parte dei giornalisti fa scudo. Israele non avrebbe dovuto arrestare Allaan il novembre scorso, e non avrebbe dovuto chiuderlo in una detenzione di 6 mesi senza processo. Israele non avrebbe poi dovuto estendere di altri 6 mesi la detenzione. E non avrebbe dovuto fare questo a diecine di migliaia di persone nel corso degli anni.  Non avrebbe dovuto agire in questo modo. Ma non è troppo tardi. Il dibattito ora non dovrebbe vertere su come prolungare la vita di Allaan. L’unico modo per salvarlo è rimetterlo in libertà, senza condizioni, e con lui altre centinaia di detenuti amministrativi. Questa non sarebbe solo una grande vittoria di questi combattenti per la libertà ma sarebbe anche una vittoria di Israele.

Versione in inglese su: www.haaretz.com/opinion/.premium-1.671264

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