Mario Agostinelli - Il Forum di Dakar

Ero incerto se usare il criterio della cronaca per stilare un resoconto del Forum Sociale Mondiale meno prevedibile da quando è nato dieci anni fa, o se far prevalere le valutazioni a posteriori, ovvero, una sintesi di quanto Dakar ha regalato a chi ha partecipato. In questo ultimo mese Sono stato influenzato dalla lettura delle bellissime pagine del libro di Orham Pamuk -“Il museo dell’innocenza”- dedicate al tempo: c’è un tempo da calendario con tanti eventi ciascuno costituito da un presente che succede ad un altro presente e che si incollano alla memoria in base all’emozione che suscitano; e poi c’è un tempo che fa da filo tra gli eventi e che li spiega non più emotivamente, ma dentro la rielaborazione che il singolo e la società operano per assimilarlo alla esperienza individuale e collettiva in continua interazione. E’ stata così intensa la sequenza degli eventi di Dakar e così ancora inadeguata la rielaborazione di essi da parte soprattutto dei movimenti in Europa, da farmi propendere per un approccio “da cronaca”, lasciando a qualche osservazione finale ed ai lettori di trarre qualche considerazione consuntiva, anche se non ancora definitiva.

I dati: 130 paesi rappresentati, 1200 incontri svolti in una settimana, 70mila persone presenti alla marcia inaugurale, 500 mila presenze complessive, ma, soprattutto, 43 dei 54 stati africani partecipi visibilmente all’incontro del Forum. Delegazioni preparate al confronto in una dimensione panafricana, che hanno attraversato territori, dormito nei villaggi, costruito una rete che non si cancellerà. “Come le impronte al finire della stagione delle piogge”. Donne provenienti dal Ghana e dal Mali assiepate sugli autobus, giovani studenti da Kenya e Camerun, responsabili di movimenti sociali dal Marocco, dall’Egitto, dalla Costa d’Avorio e dal Sudafrica. Il vero protagonista dell’evento è stato lui: il continente africano. Ricco di contraddizioni ma desideroso di giustizia e di libertà.
Il Forum Sociale, nato nel 2001 a Porto Alegre, in Brasile, è tornato per la seconda volta, dopo Nairobi, in terra africana e ha trovato un continente in pieno fermento, politico, sociale ed economico. Proprio nei giorni delle rivolte in Egitto e Tunisia, migliaia di intellettuali, politici e studenti, si sono ritrovati all’università “Cheikh Anta Diop” per discutere di alternative al neoliberismo economico, di giustizia ambientale e climatica, dei beni pubblici come acqua terra e energia, della questione tragica dell’emigrazione, di lavoro e occupazione, diritti delle donne e delle minoranze etniche.

Prima sorpresa: nello spazio universitario in allestimento spicca un villaggio UISP, con campi di calcio, giochi per ragazzi e uno striscione per l’arrivo di una straordinaria corsa africana: un “Tour della solidarietà” dalla capitale del Mali, Bamakò, a Dakar, capitale del Senegal. Percorso tortuoso per 22 ciclisti, italiani e africani, che hanno pedalato spalla a spalla e toccato città e villaggi portando solidarietà concreta attraverso il sostegno a progetti di cooperazione.

E’ l’anticipo della marcia di apertura: non un assembramento cittadino, ma il punto finale di marce e carovane che si ricongiungono dai punti più disparati del continente nero. Settantamila coloratissime presenze in cui -ovviamente- è soverchiante quella africana: in testa i senegalesi, come ovvio, seguiti da una folta e vivacissima rappresentanza marocchina. Netta la prevalenza delle donne di ogni età, e di giovani: riflesso non tanto dell’assetto demografico del Maghreb e dell’Africa nera, quanto del risveglio panarabo e panafricano in corso, che potrebbe contagiare per primo proprio il paese che ospita il Forum, il vivace, politicamente strutturato e culturalmente più moderno Senegal urbano, e di qui generare un effetto domino sul resto del continente, a partire dai paesi più sofferenti sul piano politico, come Nigeria e Camerun. Ripercorrendo in lungo e in largo il corteo, forse per la mia provenienza sindacale, mi è scattato un non incredibile, ma possibile parallelismo tra le donne africane di oggi e gli operai torinesi del luglio ’60, che inaugurarono una formidabile stagione di emancipazione del lavoro. I boubou a quadretti come le tute blu. A significarne l’apertura al futuro, il corteo era guidato simbolicamente da un centinaio di bambini di una scuola elementare privata di Dakar, ciascuno con un palloncino colorato, accompagnati da una dozzina di suore giovanissime che sembravano suggerire “Un’altra chiesa è possibile”. Dagli altri continenti, folta la presenza dei brasiliani e dei venezuelani, buona la partecipazione italiana (Arci , Uisp, Fiom, Cgil), molte le organizzazioni di cooperazione, tra cui le internazionali Oxfam e Caritas in primis, e la nostra Mani Tese. L’entusiasmo collettivo per la recente rivoluzione tunisina e l’appoggio al popolo egiziano impegnato ad abbattere la corrotta e filo-occidentale dittatura di Mubarak, erano palpabili. Ferocemente ironici i senegalesi nei confronti del presidente in carica Wade, il megalomane autocrate che ha stravolto l’eredità pluralista voluta e difesa dal “padre della patria”, il poeta Leopold Senghor. Altrettanto palpabili i temi salienti impressi dagli africani alla più imponente manifestazione nella storia recente dell’Africa subsahariana. Si tratta di temi quotidianamente vissuti, non derivati da approcci ideologici, e sentiti come urgenti per la salvezza e la ripresa del continente. In evidenza le libertà civili e i diritti dell’uomo e del cittadino, ma con una forte connotazione di genere, la donna essendo il vero pilastro della sopravvivenza africana, ma tuttora oppressa da un radicato, millenario dominio maschile e patriarcale. A seguire, la rivendicazione dei diritti sociali elementari -l’istruzione, la casa, l’acqua potabile, la tutela di maternità e infanzia-, e i temi dello sviluppo sostenibile, specie in agricoltura, dove i contadini si sentono minacciati da colture estranee (ogm, produzioni intensive…), incapaci di garantire l’autosufficienza alimentare, e dalle penetrazione delle multinazionali, incluse quelle della potenza imperiale emergente, la Cina.

Il Forum, come già è stato per l’America latina, dal primo giorno è apparso l’occasione per la diffusione in Africa di movimenti di democrazia partecipativa, capaci di mutare gli equilibri nelle forze politiche e nei governi. In declino o in involuzione in Occidente, la democrazia nel suo senso sostanziale, fatto di giustizia sociale, di diritti del lavoro, di accesso all’informazione libera e di una volontaria partecipazione popolare organizzata, sembra conoscere una nuova vitalità e un’opportunità di rigenerazione, proprio nei paesi emergenti, specie quelli che insieme cavalcano e subiscono i processi di globalizzazione in atto. Perfino nei “boubou” a quadretti delle donne schierate i corteo si poteva percepire una nuova geopolitica a cui i movimenti imprimono una accelerazione.
Questo vuol dire che per i movimenti, il Forum resta un luogo utile.
Il momento a suo modo più emozionante del Forum Sociale Mondiale di Dakar è scoppiato attorno alle 16 locali di Giovedì 10 febbraio, mentre all’assemblea dei popoli del Maghreb interveniva un ragazzo egiziano, arrivato in Senegal frastornato dopo 14 giorni di continua presenza in piazza al Cairo. Mentre nei giorni precedenti l’attenzione era stata allertata da piccoli cortei che percorrevano ogni tanto i viali della città universitaria invocando la fine della dittatura sostenuta per quasi trent’anni dall’Occidente, un improvviso tamtam multiplo di applausi, grida di gioia, voci concitante entrate nelle aule e nelle tende tra telefonini squillanti ha diffuso tra le migliaia di persone presenti la notizia della caduta di Mubarak. Dopo poche ore, tra la delusione di tutti, la notizia si è rivelata temporaneamente infondata, ma l’evento tanto atteso è stato fiondato sugli schermi delle TV il giorno dopo, durante la conclusione del Forum. Ed è stata una esplosione.
Uno dei meriti maggiori del Forum è stato di aver posto sul tappeto, anche sull’onda degli eventi in Tunisia ed Egitto, l’urgenza di una democratizzazione sostanziale dell’Africa, per superare la corruzione; l’autoritarismo; gli sprechi; il clientelismo; la carenza di servizi e beni di prima necessità; la svendita delle risorse e del territorio; il dissesto ecologico. Ora in Egitto, come già in Tunisia, la transizione verso un pieno sistema democratico è possibile, mentre il deserto politico del mondo arabo è ormai investito da flutti impetuosi. Quanto all’Africa nera, il Forum ha agevolato la ricostruzione di un legame politico tra africani della diaspora e oppositori locali; qui la lotta per la democrazia assume un contenuto più sociale che direttamente politico, e al momento passa attraverso l’iniziativa delle donne, delle comunità locali, dei giovani senza futuro delle metropoli, più che dall’azione di movimenti e partiti. Ma anche qui si può sperare. C’è infatti un protagonismo delle nuove generazioni africane che possiamo toccare con mano. E se tre livelli -i blocchi storici costituiti dalle popolazioni oppresse; le realtà etniche e culturali che si riconoscono in nazioni con loro istituzioni democratiche; la capacità di mescolare senza contrapposizioni irrimediabili le culture religiose- convergono in una direzione concorde, si può aprire, come avvenuto in America Latina, una rottura con la dipendenza dagli Stati Uniti e la storia coloniale.

Nei giorni precedenti il Forum, nell’incantevole e simbolica isola di Gorée -uno dei luoghi storici di concentramento e smistamento degli schiavi destinati a venire insediati a forza, in posizione subalterna, nei paesi colonizzati-, una serie di Ong ha presentato una Carta mondiale dei migranti. Attraverso azioni di sensibilizzazione e forme di lotta originali, come lo sciopero degli stranieri, si vuole promuovere un movimento a carattere internazionale dei migranti, in tutte le direzioni in cui essi si muovono, e dunque non solo tra Nord e Nord e Nord e Sud del mondo, ma anche tra Sud e Sud, La Carta è vista più come strumento tattico per ottenere nei singoli contesti nazionali o comunitari, che come obiettivo strategico che solo le Nazioni Unite possono ratificare. I temi più rilevanti sono: il diritto di partire o restare in piena libertà; il diritto dei migranti di portare con sé, secondo la discussa espressione di Charles Taylor, “tutta la loro zolla”, ossia le loro lingue, religioni, culture e tradizioni civili e civiche; la parità tra lavoratori autoctoni e migranti; la ridefinizione dell’idea di cittadinanza in base alla semplice presenza per un certo tempo in un dato territorio; l’estensione ai migranti del diritto di voto e delle protezioni sociali accordate ai nativi, e in generale la caduta di ogni forma di discriminazione e di differenza di stato giuridico.
L’unità e il coordinamento mondiale dei migranti, ben lungi da essere anche minimente apparsi in un qualche vago orizzonte, sono visti come condizioni per una pressione efficace sulle Nazioni Unite, sulle comunità sovranazionali, come la UE, e sui singoli stati nazionali. Un altro strumento ritenuto utile è la rivendicazione di sanzioni e l’impiego di forme di boicottaggio verso quei paesi che violano i diritti dei migranti o le convenzioni internazionali (molti hanno citato come illegale sul piano del diritto internazionale, l’accordo italo-libico che affida alla polizia di Gheddafi il rimpatrio dei migranti clandestini).

Tra i seminari densissimi di partecipazione e contenuti, ho seguito in particolare quelli sui beni comuni (acqua e energia) e sul cambiamento climatico. Venti anni fa a Rio l’ONU teneva la conferenza sullo sviluppo sostenibile. Rio+20 si terrà a maggio 2012, con una centralità politica molto maggiore. In Brasile si è costruita e si sta allargando la rete delle organizzazioni brasiliane che chiamano alla mobilitazione (a cui partecipano tutti gli attori principali, inclusa Via Campesina). Anche in altri paesi stanno nascendo coalizioni unitarie. La mia convinzione è che la scadenza referendaria del 12 e 13 Giugno sia decisiva non solo per far prevalere il Si raggiungendo il quorum, ma anche per far crescere anche nel nostro Paese una sensibilità che non è ancora generale e che il governo attuale vorrebbe uccidere nella culla. Rio+20 sarà un momento di convergenza delle reti che lavorano sulla questione ambientale, climatica, della sovranità alimentare, dei diritti sociali, del lavoro, della riconversione dell’economia e della società, dei beni comuni, dell’acqua.
La preparazione di Rio+20 si farà dentro alle campagne e agli appuntamenti globali previsti nel prossimo anno: il G8 e il G20, la COP di Durban sul clima, il Forum mondiale dell’Acqua . E ciascuno potrà inserire le proprie mobilitazioni locali e nazionali nel percorso. L’idea è di arrivare a Rio con una presenza veramente massiccia di attivisti, per rivendicare un’altra economia, un’altra società, un altro modo di vivere.

Per concludere, dopo un tentativo di cronaca molto parziale, vista la dimensione dell’evento, un ritorno alla ricerca di quel filo temporale che trascende le singole giornate. Nell’attuale situazione internazionale, il Continente africano sta pagando il più pesante tributo della crisi neoliberista, e per questo si è voluto dare ai movimenti sociali africani l’opportunità di unire le loro realtà e le loro lotte a quelle degli altri movimenti sociali nel mondo e di elaborare delle strategie comuni alternative al sistema economico, politico e ambientale dominante. Le esperienze accumulate dal 2001(il primo FSM di Porto Alegre) e le lezioni apprese dagli africani dai differenti movimenti altermondialisti, hanno impresso un carattere nuovo alla qualità del Forum Mondiale di Dakar. Molto più di quanto accadde per Nairobi nel 2007 sono state coinvolte diverse realtà, sia dal punto di vista geografico che socio-politico. Negli ultimi due anni, tanti paesi africani hanno tenuto eventi Forum sul loro territorio, con movimenti di contadini, pescatori, gruppi di donne, comunità locali: pur con tutte le difficoltà di un continente difficile da tanti punti di vista, la presenza della società civile e dei movimenti sociali africani è stata questa volta molto più ampia del passato. Nel mutato scenario internazionale, la relazione sud-sud fra Africa, America Latina e Asia è balzata al centro dell’interesse del Comitato Organizzatore Africano. Per certi versi giudico quanto avvenuto a Dakar equipollente per significato a quanto costituì Genova per l’Europa dieci anni fa. Nel 2001 quell’appuntamento, di sei mesi successivo a quello di Porto Alegre, si inserì nella dinamica di maturazione della coscienza antiliberista europea -in particolare delle giovani generazioni- ed ebbe una straordinaria eco in tutto il mondo. Centinaia di migliaia di persone, ragazze e ragazzi in particolare, donne ed uomini di tutto il mondo si diedero appuntamento per denunciare i pericoli della globalizzazione in corso e per contestare i potenti del G8, intenti a convincere il mondo che trasformare tutto in merce avrebbe prodotto benessere per tutti. Quel movimento diceva “che la religione del mercato senza regole avrebbe portato al mondo più ingiustizie, più sfruttamento, più guerre, più violenza. Che avrebbe distrutto la natura, messo a rischio la possibilità di convivenza e persino la vita nel pianeta. Che non ci sarebbe stata più ricchezza per tutti ma, piuttosto, nuovi muri, fisici e culturali, tra i nord ed i sud del mondo”. Oggi quelle ragioni sono ancora più evidenti, dopo che chi ha determinato una crisi mondiale più grave delle precedenti cerca ancora di approfittarne, rapinando a più non posso le ultime risorse naturali disponibili e distruggendo i diritti e le garanzie sociali conquistate in due secoli di lotte. Così come si mostrò a Genova, anche in Africa è nata una gioventù libera dal passato ideologico, molto pragmatica, ostile alla corruzione e alla mancanza di democrazia. Per questo usa la rete e il passaparola per riconoscersi, per autoorganizzarsi. Nelle città del Senegal, come in Tunisia e in Egitto, non c’è luogo pubblico rilevante per gli studenti -dalle aule dell’Università alle biblioteche, ai ritrovi e ai bar- che non sia WI-FI. Mi sembra di percepire una fase di svolta, che potrebbe essere repressa, ma che è entrata in un sentimento popolare diffuso e che ha portato qui da tutta l’Africa in carovana centinaia di autobus e camion carichi di donne, ragazzi e uomini semplicissimi, pur di diversi colori, abiti, religioni e lingue. Forse è per questo che Wade, il presidente autoritario e illiberale del Senegal ha di fatto boicottato lo svolgimento del Forum Sociale Mondiale. Quando tutta l’organizzazione aveva prenotato le aule dell’università e gli studenti avevano chiesto la sospensione delle lezioni per incontrare i partecipanti al FSM, ha sostituito repentinamente il Rettore con un suo uomo, che ha mantenuto il calendario delle lezioni, ha costretto le assemblee a tenersi in tende approntate all’aperto e senza disponibilità di microfoni e traduzioni, provocando e favorendo una disorganizzazione che non si è potuta recuperare nel tempo stretto dell’ultima settimana prima dell’inaugurazione. Evidentemente, un potere corrotto e oscurantista ha provato ad impedire che l’occasione del Forum desse adito a proteste e sollevazioni del mondo studentesco locale. Ma fino a quando?
il Forum che ho visto e a cui ho partecipato con entusiasmo a Dakar ha parlato con la voce straordinaria di donne e giovani ed ha saputo anche tener conto maggiormente delle nuove realtà geopolitiche. E non sarebbe male, dopo questa presa di coscienza della centralità africana, che il Forum Sociale Mondiale del 2013 torni in Europa, magari sulle sponde nord del Mediterraneo. Tanto più che l’Europa meridionale vive una situazione economica e sociale molto simile a quella di alcuni paesi del sud del mondo. Ma il Forum in Europa, l’abbiamo imparato , può avvenire a una sola condizione: deve essere organizzato insieme ai movimenti del sud.