Claudio Mondino - La favola di Potosì

La regione di Potosí, sull’altipiano andino bolivia no, ricca di storia e di tragedie, ed altrettanto ricca di materie prime, disegna nel corso della sua storia il percorso tragico -spesso maledetto della ricchezza nel continente latinoamericano. Nel 1545, dopo la disfatta degli Inca per mano di Pizarro, dopo il loro sterminio e la razzia del loro immenso patrimonio aureo (basta andare a vedere lo splendore di quel poco che ne è rimasto al Museo dell’Oro di Bogotá), i conquistadores scoprono una enorme miniera d’argento sul Cerro Rico, montagna della Cordigliera delle Ande, in Bolivia, a 3970 metri di altezza, e fondano sulle pendici di quella montagna una cittadina: Potosí.
Un censimento del 1601 dice che vi abitavano 160.000 persone. È stata per ben due secoli la principale città del mondo ispanico: un torrente di argento è fluito lungo le pendici del Cerro Rico passando dalle fornaci di Potosí per arrivare in Spagna. Centinaia di migliaia di indigeni hanno perso la vita in quelle miniere. Nel 1658, in occasione della processione del Corpus Domini, vennero rimosse le pietre del selciato nelle strade di Potosí e sostituite con barre d’argento massiccio. Un’espressione ancora comune in America Latina è dire: “vale un Potosí”, per indicare un’enorme ricchezza. Frase coniata da Cervantes nel Don Chisciotte.
L’enorme quantità di oro e argento estratti da quelle miniere è stata utilizzata per finanziare guerre in Europa e per portare a termine nuove imprese colonizzatrici. Si dice che con tutto quell’argento si sarebbe potuto costruire un ponte fra la Bolivia e la Spagna. Oggi Cerro Rico è un formicaio di 5.000 gallerie dove minatori che lavorano in proprio rischiano la vita per sbarcare il lunario. La favola di Potosí -dalla povertà alla ricchezza alla totale miseriaè un esempio che può illustrare il processo di sviluppo in America Latina e la politica del commercio delle materie prime e delle risorse di cui ancora oggi il Continente è estremamente ricco. Tanto più oggi, si dovrebbe dire, a partire da quelle essenziali e straordinarie risorse che costituiscono la biodiversità, la sola capace di salvare il pianeta da una catastrofe ecologica.
Fin dalla sua conquista l’America Latina ha prodotto merci destinate all’esportazione -caffè, zucchero, stagno, oro, argento, legnameed ha utilizzato il ricavato per importare dall’Occidente prodotti finiti. Le nazioni ricche hanno mantenuto bassi i prezzi delle materie prime ed imposto forti dazi sui prodotti agricoli per rafforzare la loro supremazia ed allargare il margine dei loro sontuosi guadagni. Nel 1989 un rilevamento di un istituto delle Nazioni Unite ha dimostrato che a Cerro Rico esiste ancora il doppio dell’argento estratto dai conquistadores. Ed ecco allora che la favola di Potosí continua. E si arricchisce di nuovi insperati colpi di scena… Chi lo avrebbe mai detto. Proprio a Potosí, dove gli spagnoli hanno rubato e depredato quantità gigantesche di argento, lasciando una scia di migliaia di lavoratori morti, sono state incontrate l’anno scorso le maggiori riserve mondiali di litio. Considerata la ricchezza del secolo XXI, il litio è il metallo più leggero finora incontrato in natura.
È qui, infatti, che secondo un istituto geologico americano si trova la più grande riserva di litio della Terra. Più del 50% di questo metallo soffice e leggero, indispensabile non solo per le batterie di cellulari e computer portatili ma decisivo per lo sviluppo di una nuova generazione di auto elettriche, si trova nella regione di Potosí. Questa immensa ricchezza è calcolata nell’ordine di 5-6 milioni di tonnellate, concentrata nel Salar de Uyuni, il maggior deserto di sale del mondo, con un’estensione di circa 12 milioni di chilometri quadrati -grande come il Trentino Alto Adigea quasi 4000 metri di altitudine. Il panorama del Salar de Uyuni è spettacolare: dove la sua superficie è secca sorgono infinite forme geometriche ottagonali ed esagonali di sale, erette dalla popolazione indigena per accelerare il processo di secca del sale. Uyuni, cittadina di 10.000 abitanti, finora è sopravvissuta grazie alla vendita del sale ed all’artigianato, visto che ogni anno circa 200.000 turisti passano da quelle parti per conoscere il più grande deserto di sale del mondo, lasciandovi la bellezza di 20 milioni di dollari, che naturalmente per la quasi totalità finiscono nelle tasche delle agenzie che organizzano i viaggi di esplorazione di un territorio con scenari davvero unici, che si estendono sui 700 chilometri che separano Uyuni dalla frontiera con il Cile.
Un luogo dove la natura è rimasta ancora praticamente intatta e dove si possono incontrare vulcani, laghi zeppi di fenicotteri, geiser, acque termali, la Laguna Verde – splendido lago addossato alle pendici di una montagna andina perennemente innevata. Ed ora Uyuni è balzata sulla ribalta internazionale con inusitata ed insperata veemenza. Può trasformarsi nel giro di pochi anni nel maggiore centro di estrazione e -perché nodi elaborazione del litio. Sarà davvero reale che sullo scenario della favola di Potosí una rotta nell’ambito del futuro tecnologico passi per l’ antico palazzo coloniale di La Paz, dove si è insediato in indio aymara, Evo Morales, primo presidente indigeno nella storia della Bolivia? Egli ha messo mano ad una vera e propria riforma strutturale della Bolivia, a cominciare dalla straordinaria riforma della Costituzione, insieme ad una decisa ripresa in mano da parte dello Stato boliviano dello sfruttamento delle risorse naturali, prima di tutto il gas di cui la Bolivia è ricca, e che fino ad ora era nelle mani di multinazionali e dell’oligarchia ricca del Paese che si divideva l’intera torta.
Tutte le grandi multinazionali dell’auto, Mitsubishi in testa, ma anche il gruppo francese Balloré, legato a Pininfarina, la Mercedes che prepara una Smart ibrida, così come i cinesi ed i russi, si sono resi conto che il vento ha cambiato direzione e che bisognerà arrivare ad accordi alla pari con lo Stato boliviano per lo sfruttamento dei giacimenti di litio. I giapponesi sono stati i primi ad aprire un ufficio di rappresentanza a 4.000 mila metri. I loro manager sono convinti che nei prossimi anni la richiesta di litio per le batterie delle nuove auto si moltiplicherà e attendono, con tipica pazienza orientale, che i boliviani decidano come gestire il loro tesoro. Risorse strategiche quindi quelle della regione di Uyuni. Ed il governo boliviano ha già cominciato a muoversi. È in costruzione una industria pilota nel Salar, con una tecnologia al 100% nazionale, capace di produrre entro fine anno carbonato di litio.
Finora l’unico accordo formalizzato fra il governo boliviano e le multinazionali giapponesi Mitsubishi e Sumitomo permette che queste formino un comitato scientifico per investigare i metodi di separazione di alcuni prodotti della salamoia (dove si trova il litio). Se in circostanze “normali”, tipiche dell’universo neoliberista, la questione si sarebbe risolta con un pessimo accordo commerciale nel quale i privati si prendevano tutto e lo Stato non riceveva nulla, questa volta il Presidente Morales ha deciso che sarà la Bolivia a dettare le regole circa l’industrializzazione del minerale strategico. Ciò che egli esige dalle multinazionali è che investano in fabbriche di batterie al litio, anziché ridursi al semplice sfruttamento della materia prima destinata ad essere poi elaborata “altrove”. La questione del litio esula peraltro dai confini dello Stato boliviano e dalla politica rifornista e statalista di Morales, per innestarsi nel contesto dell’attuale crisi internazionale, acquisendo in questo senso un maggiore significato se lo si vuole mettere in relazione con il piano di riscatto promosso dal Presidente USA Barack Obama. La Casa Bianca ha capito che la crisi non si riduce al solo ambito finanziario, ma coinvolge due settori vitali quali l’energia e la conservazione dell’ambiente.
A partire da ciò il “pacchetto economico” statunitense prevede l’apporto di risorse per lo sviluppo di tecnologie che facilitino una riconversione industriale efficiente, sia per quanto concerne il costo energetico e sia per la non aggressione all’ambiente. Il piano di Obama -che comprende anche il settore automobilisticoconsiste nell’accollarsi da parte del governo degli alti costi della ricerca e dello sviluppo di prototipi, nel promuovere la coscienza e l’accettazione dell’opinione pubblica e nel finanziare l’infrastruttura necessaria. È chiaro che sia Obama come Morales coincidono quanto all’importanza dell’intervento statale per far fronte alla crisi. Entrambi percepiscono come -in un’epoca segnata dai cambiamenti climatici, dalla scarsità delle risorse e dalla difficoltà energeticagli sforzi pubblico-privati per orientare il cammino dell’economia verso nuove tecnologie costituiscono un principio basilare per uscire dalla crisi. Ed è interessante trarre le conseguenze di questa filosofia politica ed economica, che riduce ad un puro anacronismo l’ideologia tanto decantata dall’epoca Reagan -Thatcher (1980) del libero mercato, e mette in scacco uno dei pilastri basilari del Consenso di Washington (1990) che predicava la necessità imperativa dello “Stato minimo”. Tanto per Morales come per Obama -anche se per ragioni molto diverselo “sviluppo sostenibile” porta con sé due verità basilari: l’importanza decisiva di porre mano alla riforma tecnologica, la quale, per avere successo, deve radicarsi saldamente nelle mani di una società formata tanto dal settore pubblico come da quello privato.
La differenza radicale fra Obama e Morales -veri e propri “Golia e Davide” sullo scenario politico ed economico internazionale è che Obama ha dalla sua quanto di meglio si possa trovare a proposito di cervelli e di istituzioni atte a compiere tale ricerca ed individuare le vie di uscita dall’impasse della crisi. Evo Morales ha dalla sua lo straordinario appoggio della base, dei movimenti sociali, dei popoli indigeni quechua e ayamara, che leggono in lui l’autore di un riscatto atteso da 500 anni. D’altro canto il Presidente della Bolivia conta con un numero enorme di cospiratori e con una regione denominata “Media Luna” popolata di acerrimi nemici della sua politica sociale ed economica. Situazione che ancora una volta mette in risalto il suo valore in quanto leader capace di sostenere politiche amministrative ed economiche in favore dello Stato ed in vista di una effettiva redistribuzione delle risorse, lottando contro una incredibile quantità di elementi contrari, sostenuti e fomentati da forze esterne molto “interessate” ai nuovi capitoli della “favola di Potosí”. Il litio oggi, come l’argento ieri, portano alla luce le tragiche contraddizioni ed i tremendi squilibri di questo continente latinoamericano ed in special modo di quel martoriato paese che è la Bolivia.
Resta un’ulteriore riflessione da fare in proposito. E riguarda il discorso relativo allo “sviluppo sostenibile”, cavalcato ormai da tutte le forze economiche che in questi ultimi anni si sono accorte come alla questione sviluppo era giocoforza annettervi una caratterizzazione che desse un maquillage di rispetto dell’ambiente, delle biodiversità. Il fatto è che non esiste sostenibilità nello sviluppo, nella “crescita”. Il fulcro passa per un’altra visione, filosofia, o -meglio passa per una “cosmologia” alternativa.
Perché sviluppo e crescita fanno parte di quella razionalità occidentale legata al capitalismo e al neoliberismo, secondo i quali non esiste vita senza crescita, non esiste progresso e quindi futuro senza sfruttamento delle risorse naturali. La cosmologia indigena quechua e aymara è agli antipodi rispetto ad un tale tipo di razionalità, e predica con i fatti una nuova -anche se antica di secolirazionalità, di taglio ambientale, rispettosa della natura, ed in cui l’uomo non ne è il dominatore ed il padrone, bensì è parte di un tutto, è figlio di quella Pachamama (Madreterra) che unica può dare e continua a dare vita. La Pachamama, nella religiosità indigena, deve essere rispettata, onorata, servita. Non disturbata, violentata e distrutta.
Quanto potrà essere accettato e sopportato, dal punto di vista di una cosmologia indigena, lo “sfruttamento” di questa nuova risorsa “strategica” per le tecnologie del nuovo millennio? Come finirà quel pezzo di paradiso terrestre al confine fra la Bolivia ed il Cile dopo che sarà iniziato il processo di estrazione e di elaborazione del litio? Quale il prezzo che la nostra Terra Madre dovrà pagare per il progresso delle nuove tecnologie al servizio della razionalità economica neoliberista? Non si tratta di identificare il progresso con il male, come quel Papa che identificò l’avvento della locomotiva come una cosa demoniaca. Si tratta piuttosto di ricominciare seriamente ed ogni volta a chiedersi quali siano le barriere etiche allo “sviluppo sostenibile”, nella ricerca di difendere e preservare una biodiversità da due secoli a questa parte messa costantemente in scacco e distrutta dal progresso. E si tratta altresì di chiedersi come e quando si darà concretezza ad un altro fondamentale e primordiale principio di etica economica che è quello di una distribuzione equa delle ricchezze e delle risorse. Lo scrittore greco classico Esopo terminava le sue favole con il ritornello o muzos deloi oti (la favola insegna che). La favola di Potosì ha molto da insegnare, se questi suoi ultimi risvolti sapranno essere letti alla luce della storia di soprusi, sofferenza, violenze che uomini e donne, così come la Pachamama, hanno dovuto subire a scapito del “progresso” e dello “sviluppo”… di pochi.