Christoph Baker
Il diritto alla tristezza

Cristoph Baker è scrittore e direttore Unicef


Le spiagge del Gujarat non ospitano villaggi turistici né stabilimenti balneari. Ad Alang, non vedrai donne in bikini o bambini abbronzati con il secchiello e le palette.
Non ci sono ristoranti tipici o bar all’aperto.
La sabbia è bianca, ci sono le palme, il mare è caldo.
Ma ad Alang, non c’è spensieratezza vacanziera.
Da anni su queste spiagge si smantellano le grandi navi cargo, petroliere, porta-container, traghetti, stanche navi da crociera.
Ogni mattina, uomini disperati si arrampicano sulle carcasse per tagliare, strappare e rompere tutto quello che può servire per vendere come metallo o ferro all’industria metallurgica dell’India. Sono come formiche questi chiavi senza diritti, senza protezione, senza futuro, che li vedi a volte cadere dalle impalcature rozze che pendono lungo le stive di questi mastodonti del mare venuti a morire qui come pachidermi al cimitero degli elefanti.
Cadono, a volte muoiono, ma nessuno ci fa caso, non c’è tempo e non conviene fermarsi. I caporali fanno scavare una buca nella sabbia e ci buttano dentro il corpo senza nome di un disperato in meno.Un disperato che nessuno rimpiangerà.Alcuni mesi fa, su queste rive dantesche, hanno portato per l’ultimo riposo una nave come non si era mai visto da queste parti. Una regina del mare, un transatlantico superbo e gigantesco. Un capolavoro della costruzione navale. La sua silhouette era conosciuta in tutti i porti del mondo. Aveva solcato le acque dell’Atlantico, del Pacifico e dell’Oceano Indiano. I suoi due grandi camini rossi, i suoi ponti superiori bianchi e l’interminabile stiva nera avevano fatto sognare più di un bambino, allorché approdava ai moli dei più grandi porti del mondo da New York a Le Havre, da Singapore a Rotterdam.
La prua affilata sembrava voler volare fuori dall’acqua. Il suo andamento maestoso aveva ispirato poeti e romanzieri.
Già una prima volta era stata abbandonata in un canale in mezzo ad un pantano perché era arrivata la crisi petrolifero del 1973 e all’epoca, costava troppo mandare avanti un bastimento di quelle dimensioni e con tutto quel personale che serviva a rendere il più piacevole possibile la traversata agli illustri e meno illustri passeggeri a bordo. Ma poi ebbe una seconda vita come nave da crociera nei Caraibi o per i famosi “giri del mondo”. Ribattezzata e ridipinta interamente di bianco, portava coppiette e pensionati a deliziarsi nelle isole tropicali e nei porti più esotici. Poi, un giorno, attraccata al porto di Baltimora, esplose una caldaia e ci fu un incendio devastatore. Allora fu rimorchiata attraverso l’Atlantico fino a Brema dove si cominciò a riparare i danni causati da fuoco. Ma un bel giorno, un rimorchiatore gigante la portò con sé al largo delle coste della Germania per un lungo viaggio dall’altra parte della terra.
Per andare a morire nel Gujarat. Sembra che c’era più da guadagnare smantellando la nave che rimettendola in sesto per servire ancora come nave da crociera.
Oggi, le foto fanno vedere un mezzo scheletro di acciaio naufragato in mezzo alle formiche umane, le stesse che hanno portato a riva tutti i mobili e lussuosi ornamenti della nave che recentemente sono stati venduti per milioni in una asta internazionale.
Questo transatlantico si chiamava “France”.
Allora, da lontano nella memoria, affiorano ricordi nitidi delle tre volte che ho attraversato l’Atlantico su questa nave…
Quando “andare in America” aveva un altro senso, quando viaggiare era un affare di giorni e settimane, non di poche ore, quando si vedeva lentamente sparire la terra e all’orizzonte solo mare, solo onde, solo acqua.
E poi entrare nel porto di New York all’alba quando dalla nebbia mattutina usciva la sagoma della Statua della Libertà e sapevi che la traversata era giunta al termine e ti giravi una ultima volta per guardare l’immensità che ti lasciavi alle spalle. Il giorno che ho scoperto le immagine di quella regina moribonda sulle sabbie del Gujarat, ho pianto. Molto. Perché un pezzo della mia vita veniva distrutto insieme alle lamiere d’acciaio della grande nave. Finché navigava ancora, quella nave mi nutriva e mi sostentava nei giorni di malinconia. Oggi, sono orfano e oggi sono triste.
Questa è solo un piccola storia intima senza pretese di universalità. Ma mi permette di riflettere sul senso della tristezza, questa emozione primordiale che troppo spesso soffochiamo per errata educazione e conformismo alla legge del più forte. Come se reprimere la tristezza fosse un atto di coraggio. Come se non piangere fosse un segno di maturità. “Dai, non piangere!” è il ritornello di premurosi genitori o cosiddetti amici, quando invece ci è crollato un pezzo del mondo e che la disperazione ci chiama perentoria. Quando si misura in un attimo l’abisso fra quello che volevamo e quello che invece siamo riuscito ad afferrare. E dentro di noi, come un torrente grondante, risale l’assurdo della vita che tutto travolge sul suo passaggio. Si tratti di un amore andato alla deriva, di una parola sbagliata detta da un persona cara, di un vuoto che all’improvviso si presenta laddove prima c’era calore. Oppure, che ci si imbatti una volta di troppo nella stupidità umana, nelle atrocità che l’uomo può compiere e non sembra ci siano le condizioni per invertire rotta. Quando un paesaggio mozzafiato viene stuprato dall’ennesimo obbrobrio costruito in nome del progresso e della modernità e degli affari. Quando un figlio non risponde più agli appelli paterni. Quando l’indifferenza intorno a sé diventa assordante, e uno impazzisce per la mancanza di condivisione.
Ci sono tante buone ragioni di essere tristi. Tanti motivi di sentire il peso della condizione umana. Allora questo sentimento profondo e allo stesso tempo così immediato ci avvolge e ci invita a sgomberare il campo di tutte le -troppe- preoccupazioni futili che riempiono la nostra esistenza, a lasciare perdere la smania di controllare le proprie emozioni.
L’uomo o la donna triste è un essere che si ferma per un po’, che lascia perdere la corsa sfrenata verso chissà quale traguardo, è une persona che si guarda intorno e dentro, che permette alla tempesta di travolgerla, che accetta la proprio dannata fragilità e per un lungo momento lascia che sia la vita a dettare l’agenda. E così facendo, si pulisce dentro. La tristezza apre le porte alla purezza. Se accettiamo la tristezza, se non la reprimiamo, diventiamo anche più ricchi. Comprendiamo meglio il sorriso goffo di un clown, la dolcezza di una sonata per violoncello di Rachmaninov, la bellezza di un Cristo di Rouault, lo struggente Don Quijote di Giacometti, le eteree poesie di Robert Frost, le pagine malinconiche di Sandor Marai… Siamo più vicini alle cose andate storte, alle vite alla deriva, agli amori incompresi, ai pesi che deve portare l’incolpevole, all’uccellino caduto dal nido, al cane randagio che ulula nella notte buia, al grande pino che il vento questa notte ha divelto. Alla montagna che è franata e al ghiacciaio che si sta lentamente sciogliendo.
Quando si è triste, poi, si è un attimo lontani dalla stupidità umana, dalla ferocia, dalla violenza, dalla sopraffazione, dall’indifferenza. Si può lanciare uno sguardo distaccato su tutte le meschinità e cattiverie che gli uomini si infliggono l’un l’altro. Si riesce a vedere per quel che sono tutte le miserie e angherie che si fanno gli esseri umani. E capire che da quello non c’è niente di buono da trarre. La tristezza ci libera di arroganze e superbie, di false certezze e ridicole sicurezze, di smanie di dominio e di controllo. La tristezza apre le porte alla libertà. E all’umiltà. Alla consapevolezza che siamo tutti vulnerabili, che ci vuole niente per sconfiggerci, per trafiggerci.
Che sono balle tutti quegli inviti alla conquista del mondo, all’affermazione del proprio credo, all’avere ragione. E’ tutto un bluff. E’ tutto una perdita di tempo, di energia e di vita. La vita è da un’altra parte, laddove si smette di pretendere di capire tutto, di controllare ogni cosa, di credere di essere il più forte. Laddove si sta attenti a non calpestare i fiori, laddove si ascolta il silenzio, perché dal silenzio nasce la musica.
A volte la tristezza ci avvolge per un attimo, il tempo di un pianto liberatorio, il tempo che ci separa dalla carezza consolatoria. E’ un’emozione forte che spazza via in un colpo false idee e stupidi calcoli. Ci ritiriamo un istante in noi stessi, ci nascondiamo agli affetti cari, troviamo un angolo per leccare le ferite con le nostre lacrime salate. E poi, ci rialziamo, ci asciughiamo gli occhi arrossiti e un timido sorriso sulla bocca, torniamo a nuotare nel grande fiume tranquillo della vita. A volte… Perché altre volte, invece, la tristezza rimane un po’ di più, non se ne va via subito. Si accomoda nel profondo del cuore e dell’anima, perché sa che ci vorrà tempo per accettare, per cicatrizzare, per ricostruire. Sa che sarebbe sciocco fare finta di niente, trattenere le lacrime, forzare il sorriso, ripartire la mascella tesa e il passo falsamente deciso. In quei momenti, la tristezza chiama a raccolta due emozioni ataviche ed essenziali, la nostalgia e la malinconia. Sono le sue figlie predilette, le ha partorite nella notte dei tempi perché l’uomo potesse trovare un po’ di calore dentro.
Non fidatevi delle persone fredde che dicono che la nostalgia è una debolezza e la malinconia una malattia. Non sanno di cosa parlano; sono i primi ad essersi cacciati nel vicolo cieco del volontarismo e del razionalismo. Vorrebbero che tutto fosse chiaro, spiegabile, definito e inscatolato in belle teorie appaganti. Ma di fronte all’evidente fallimento di tale approccio, hanno paura di accettare lo sbaglio, di chiedere perdono, e quindi spargono veleno su tutto quello che invece sfugge alle loro categorie. Come la nostalgia. Non so come il mio prossimo vive questo sentimento intimo. Avrà anche lui la memoria che gli fa scherzi improvvisi ricordandogli quanto era felice un tempo con un pezzo di pane e due olive, seduto sull’erba con una dolce fanciulla da accarezzare a portata di mano? Ci saranno momenti in cui si ricorderà dello slancio poetico che dettava i suoi ideali giovanili? Sarà stato travolto da immagini ingiallite di una stagione felice vissuta fra pozzanghere e alberi da scalare? Avrà anche lui di fronte a sé gli occhi misteriosi di una donna che lo stregò poi lo ammaliò e poi lo stritolò? E lo sguardo innocente del bimbo neonato che oggi è questo figlio adolescente un po’ smarrito? Come la malinconia.
Qui entriamo nei misteri di una vita, nelle sue zone d’ombra, nel suo intimo caotico. Pensavamo di scivolare in caduta libera, ed ecco ad afferrarci questo sentimento nobile, un po’ crepuscolare, che si fa avanti fra angosce e paure, fra rimpianti e rimorsi, fra disgusto e pietà di sé. Uno stato d’animo fuori dalle regole della ragione o della volontà. Dove non sono più gli insegnamenti ricevuti né le lezioni di vita a guidarci, bensì una fiducia irrazionale e subconscia nelle forze ataviche che reggono questo strano animale chiamato uomo.
La malinconia è un invito a non scordare la propria pochezza, la propria inadeguatezza, il proprio smarrimento. Di non richiudere gli occhi e il cuore, dopo che uno ha guardato nel buio della condizione umana e ha assaporato i frutti amari della solitudine, dell’emarginazione, della sopraffazione. Quando si vede la ferocia di certi uomini che è gratuita, facile, meschina. O la facilità con la quale un essere amato ferisce l’altro, fino a toccare le fondamenta del proprio essere. Oppure, sapere che un figlio ha tagliato i ponti e non tornerà più. Saperlo dentro. A volte, basta anche un treno che si allontana lentamente dalla stazione e porta via per sempre un amore giunto alla fine. Allora, la nostalgia e la malinconia ci dicono di conservare i ricordi della tristezza.
Ci invitano a riflettere sulle nostre azioni, sul nostro fare, sul nostro vagare in questo mondo. Ci indicano una strada dove saranno la dolcezza, la pazienza, l’empatia, l’ascolto e la condivisione a ridarci forza. Dove non si dovrà più calpestare il prossimo per andare avanti. Né ridurre l’altro ad una semplice comparsa del proprio arrogante destino. E quando la tristezza si allontana per lasciare il posto alle altre emozioni che ci accompagnano sul sentiero della vita, rimane in noi un sentimento di tranquillità, di pace, di bello. Lentamente torna il gusto di ripartire, di spalancare di nuovo le finestre del cuore, per fare entrare tutti i colori, i profumi, i sapori e la meraviglia della vita che ci circonda.
La tristezza ha fatto pulizia, ci ha ridato forza, e ora ci chiede solamente di non smarrire quel sentimento profondo che abbiamo vissuto nel nostro intimo, di tenerlo stretto a ricordarci sempre che siamo ben poca cosa, e che il vero miracolo è arrivare a domani senza tradirsi.
Bonjour tristesse…