Pio Campo - Camminare, camminare, camminare per cambiare


Nel tornare ad aprirmi al mistero di un nuovo anno, sento l’inquietudine del mio sguardo che sfiora il tempo passato e la trepidazione dei giorni ancora da scrivere.
Mi conduce la danza nella sua testardaggine, coi suoi incanti e le sue sfide.
Mi conduce la danza, dimensione d’amore, di vita.
Non credo a un tempo cronologico al quale destinare riflessioni e auguri. Mi affido piuttosto al respiro nuovo che sento in questo esatto istante  e, così, riprendo a cavalcare.
Nella corsa contro il vento, ascolto gli echi delle parole che la danza ha evocato e mi inchino di fronte alla concretezza di tutto ciò che le parole, divenute realtà, hanno portato.
Danzare la fede, il mistero, la presenza.
So, con lucida nudità, quanto la mia pelle si sia strappata e curata al suono di queste parole vive, di questa danza viva.
Mi sento felice del privilegio di continuare a credere, sentire, danzare; orgoglio di appartenere a un cammino che si crea e ricrea nella vita di chi si dedica alla comprensione della meraviglia e dell’orrore dell’esistenza.
Seduto davanti al mare della Bahia, mare brasiliano, mare turchese, macchiato di verde e azzurri intensi, mi perdo in orizzonti infiniti, in onde vigorose o lente come un sorriso che si schiude in uno stupore.
Mare. Avanzare e immergersi, affidarsi ed essere le tue acque, i tuoi abissi, la tua voce forte o soave, le tue ombre, i tuoi riflessi.
Ci ricevi tutti senza limiti, corpi scultorei, corpi fiacchi, membra stanche o vigorose, pelli tenere e pelli aride come solchi nella terra. Entriamo giocando, fendendoti. 
Entriamo in te correndo o con passi lenti, cauti. Siamo  toccati dalla paura o dalla trepidazione, desiderio di freschezza e di pericolo, desiderio di te che sei, senza equivoci, presente, misterioso, vivo, danzante.
Entro in te pregando, amore, madre, origine, amante.
Qualche onda più in là mi cattura il passo incerto di un ragazzo, corpo altro, diverso, torto. Anche lui sorride, anche lui ti chiama, anche lui in te.
Ti percorro al mattino appena sveglio, coi tuoi lembi luridi dei nostri rifiuti, scarti, sputi, cibi vomitati e panni sporchi. Tu che ti muovi e restituisci tutto nella tua danza, i tuoi abitanti morti di tanto ingoiare plastica.
Bottiglie, lattine, divani sventrati e frigoriferi squassati.
La nostra merda che ti penetra a fiumi.
Niente offusca la tua forza ma, ogni onda, si macchia di avvisi… Cambiare o morire.
Tu, noi. Insieme, travolti.
Mare, madre mia, origine, movimento, flusso.
Bambino. Sulla tua sponda, piccolo, pelle scura e lucida. Non parla, un anno, forse meno. Le iridi scure incorniciate da un bianco intenso mi invitano al gioco. Disegni sulla sabbia, itinerari danzanti che si intrecciano fra lui e me, danza di dita, speranza senza paura, parole mute fatte di movimenti circolari. Piccolo e vero, nessuna mediazione, un sorriso e una domanda sul volto, accovacciato sulla sabbia con me, in una intimità come quella che tu sai… Mare.
Mare madre, padre, mare che crea e restituisce.
Qualche granello di sabbia più in là una  bambina ammicca e offre il suo corpo.
Notte. Non dovrei stare qui di notte. Notte, lo so che non mi proteggerai sulle rive.
Lui arriva alle spalle dal niente. Lo guardo ma non capisco le sue parole. Comprendo invece il suo coltello lucido nel buio, piantato su di me.
Vorrei essere lontano da qui, adesso, ma devo rimanere.
Un altro tempo si presenta.
Il tempo delle sue mani che mi invadono e cercano e il coltello.
Dice di non guardarlo e di tirar fuori i soldi che non ho portato.
Tu mare, madre, uguale a te stessa, mi guardi senza i tuoi colori brillanti e io cerco parole che preghino e danzando mi portino dove la vita non muore. Vorrei uscire sano da questo scempio, senza cicatrici e vivo, meglio. Voglio continuare a danzare.
La mia preghiera si muove silenziosa dal mio cuore al suo, al cuore della vita dove qualcuno o qualcosa  ascolta sempre.
Un tempo senza tempo, senza risposte. Un tempo dilatato che si appoggia sul coltello che deciderà.
È andato.
Riprendo i miei passi verso casa, vuoto.
Galleggiano gli echi, mentre il vento mi tocca. Echi di parole danzate.
Fede, ascolto, presenza.
Non so perché ma mi sento più vivo. Credo di avere compreso qualcosa, dai tuoi colori sfavillanti insultati dai rifiuti, dal bimbo che gioca in te e dal tuo figlio che mi punta addosso le sue armi, perde i colori e si veste di una notte torbida, senza luci.
Sulle tue rive, tutti noi. Respiro e riprendo. Cavalcare le onde della bellezza e del tormento.
Credere che la danza preghiera arrivi dove qualcuno, qualcosa, ascolti, sempre.
In quel punto esatto dove tutto respira, dove tutto ascolta. 
E credere che ci sia ancora tempo.
Per cambiare.