Paolo Latorre - La responsabilità dell’accoglienza e della relazione


Sono le quattro del pomeriggio, ritorno a casa dopo un incontro con un gruppo di giovani, quasi tutti ex-ladri, tutti senza lavoro e che vogliono cercare di trovare un’alternativa a una vita di stenti che molto spesso li induce a rubare, forse presi anche dalla rabbia che in questo paese -come nel mondo- la divisione tra chi ha tanto e chi ha nulla è sempre più marcata e genera miseria, diseredati, esclusi da una storia che continua ad essere scritta da chi non ha vissuto e/o conosciuto la sconfitta, il fallimento...una storia che narra dei vincitori senza lasciar parlare i vinti.
La breve pausa in casa me la concedo per prepararmi alla messa nella casa di un ammalato. Oggi andrò a Kisumu Ndogo, nome di una della 7 zone in cui è divisa Korogocho. Questa breve pausa però è interrotta, o accompagnata, dalla visita improvvisata di persone che chiedono aiuto o che solo vorrebbero raccontare la loro storia, le loro vicende quotidiane. Molte di queste vicende diventano l’angolo visuale dal quale leggo e medito il Vangelo.
La celebrazione della messa con gli ammalati la vivo come un dono che accompagna, rinvigorisce e dà senso alla vita a tutti coloro che si riuniscono in queste piccole cattedrali di lamiera per celebrare la Vita e chiedere la grazia di Dio. Leggendo il Vangelo mi dà forza il fatto che Gesù stesso ha cercato di incontrare la gente i poveri nelle loro case, per strada credendo che è nella relazione e nella condivisione che si trova il senso della vita. Molti sono gli episodi nei quali sono raccontate le visite di Gesù ai poveri. Uno di questi giorni, adesso mi colpisce particolarmente: Gesù che entra in casa di Simone il lebbroso a Betania (casa dell’amicizia).
Meditando il suddetto passo del Vangelo nella versione di Marco, mi ha colpito un particolare quasi adombrato, che si legge tra le righe: Gesù è a Casa di Simone il lebbroso e con lui anche tanti altri che osservano la scena della donna che entra e versa profumo di nardo prezioso sulla testa di Gesù, ed è una unzione che gli costa la vita perché non si accontenta di aprire il vaso contenente il profumo, lo rompe per essere sicura che tutto il profumo della sua vita, della sua bellezza, del suo fascino sia per Gesù, per il figlio dell’Uomo che ora sta per dare la vita lui stesso. Forse questo gesto di tenerezza ha così toccato Gesù fino a motivarlo ad andare avanti -rompendo anche lui stesso il vaso della sua vita- senza cedere alla paura della croce nel giardino degli Ulivi.
In questo passaggio noto un profondo gesto di tenerezza di Dio per l’umanità, per ognuno di noi.
Simone era un lebbroso e sappiamo tutti quanto la lebbra era una malattia che discriminava e costringeva coloro che ne erano infetti a vivere fuori le mura. Gesù va fuori le mura, va verso i più poveri ed emarginati della vita, e ci invita  a seguirlo, a fare lo stesso! C’erano molti in quella casa quel giorno, Simone stesso si era meravigliato, ancora più meraviglia destava il fatto che ora la sua casa profumava di nardo e di tenerezza!
Tanti mormorano al vedere il gesto della donna, criticano, fanno conti, pensano ai poveri con ipocrisia, fanno le loro elucubrazioni su cosa si sarebbe potuto fare con l’equivalente in moneta di quel profumo!
Quella stessa gente che mormora e critica forse non sarebbe mai andata in casa di Simone il lebbroso, ma per vedere Gesù, per coglierlo in fallo, per criticarlo osano il gesto che per alcuni era contro le loro norme religiose!
Il criticare il gesto della donna e le elucubrazioni della gente in casa di Simone mi riporta alle tante discussioni che si fanno sui poveri, su come cambiare la loro povertà in ricchezza. Discussioni su quale sviluppo adottare per poter aiutare i poveri pretendendo di non mettere in discussione i nostri stili di vita che poi generano quei poveri che vogliamo aiutare!
Questa densa scena del Vangelo ci mette di fronte ad una bella realtà: tutti sono presenti nella casa di Simone il lebbroso, attratti da Gesù e dalla forza del suo amore e della sua presenza. Qui vivo questa realtà tutte le volte che vado a visitare i malati, gli anziani, la comunità dei lebbrosi che è qui con noi a Korogocho. Attratti dalla presenza del Cristo nell’Eucaristia, che celebriamo nelle famiglie, quel cumulo di lamiere e assi di legno che coprono la testa di molta gente diventano luoghi di incontri privilegiati per me missionario e per la gente soprattutto.
Questa scena del Vangelo però dice anche altro per la situazione che viviamo qui a Nairobi: qui c’è il quartier generale di UN-HABITAT (organizzazione dell’Onu per le abitazioni). è veramente strano constatare che Nairobi è la città più densamente popolata, precaria in termini di sanità e sicurezza negli slums! E queste non sono parole mie, sto citando uno studio dell’ONU del 2003. Altrove, sempre fonti dell’ONU, dicono che “gli insediamenti informali ospitano i tre quinti della popolazione totale di Nairobi” che al tempo dello studio (2001) contava 2,5 milioni di abitanti, e la proporzione della terra occupata dagli slum è inversamente proporzionale alla terra occupata dalle zone ricche. Nairobi è la città africana con il più altro numero di slums: ad oggi più di 200 e questa cifra tende ad aumentare. Ho partecipato a vari incontri in questa sede di UN-HABITAT circa l’upgrading (risanamento) degli slums a livello mondiale. Molto spesso in queste riunioni, fatte di tante parole, concetti e teorie, ho avuto la netta impressione di perder tempo a sentire ipotesi di risanamento e di miglioramento della condizione dei poveri. Poi in uno dei documenti prodotti da uno di questi forum leggo questa definizione di “abitabilità dignitosa”: “Adequate shelter means more than a roof over one’s head. It also means adequate privacy; adequate space; physical accessibility; adequate security; security of tenure; structural stability and durability; adequate lighting, heating and ventilation; adequate basic infrastructure, such as water-supply, sanitation and waste-management facilities; suitable environmental quality and health-related factors; and adequate and accessible location with regard to work and basic facilities: all of which should be available at an affordable cost” (Adeguato rifugio significa più che un tetto sopra la testa. Vuol dire anche adeguata vita privata; adeguati spazi, fisicamente accessibili; adeguata sicurezza; sicurezza della proprietà; stabilità e resistenza strutturale; adeguata illuminazione, riscaldamento e ventilazione; adeguate infrastrutture di base, come rifornimento di acqua, misure igieniche, controllo degli sprechi delle strutture; qualità idonea dell’ambiente, fattore collegato alla salute; posizione adeguata ed accessibile rispetto al lavoro ed ai servizi di base: tutto questo dovrebbe essere a disposizione ad un costo accessibile).
Dopo aver letto questa definizione e confrontandola con quanto la gente vive qui a Korogocho mi son chiesto quale è il posto per le relazioni umane, per l’amicizia e per la crescita comunitaria!
Certo il risanamento di Korogocho è una questione importante che stiamo seguendo con dedizione, ma se il risanamento non tiene in considerazione che se da una parte del mondo (o di Nairobi stessa) si vive in quattro persone in uno spazio enorme, spazio sprecato e inutilizzato, dall’altra parte si vive in una altissima densità di popolazione, dove lo spazio manca ma non manca il profumo della vita vissuta in profondità!
Forse l’approccio che abbiamo verso i poveri e gli emarginati non è un approccio liberante per loro: i poveri sono sempre considerati oggetto di miglioramento e quasi mai soggetti del loro miglioramento, della loro storia.
In questi anni di presenza qui a Korogocho mi sembra di cogliere il disagio che gran parte della società benestante e agiata vive al solo pensare che la vita si deve vivere con lo sguardo dei poveri, dei semplici, degli emarginati! Che dai poveri abbiamo da imparare a vivere!
Questa crisi mondiale che sta mettendo in pericolo i templi e gli idoli sui quali abbiamo fondato i valori della vita è per me un’occasione per imparare dai poveri, dalle economie informali, dalle soluzioni economiche locali.
Ma invece noi ci ingarbugliamo nelle discussioni ed elucubrazioni sui poveri facendo scivolare sulla nostra pelle gesti come quelli della donna del Vangelo che compie un atto di tenerezza e riconoscimento della vita vera in Gesù, gesti come quello di Simone di Cirene che nel silenzio accetta una croce che non è la sua e strada facendo entra in sintonia con la Croce e con Gesù! Forse è giunto il momento -negli spazi di vita e talenti che ciascuno di noi ha- di rompere i vasi (schemi, pregiudizi) che tengono imprigionata la nostra vita personale e sociale per sprigionare quel profumo di tenerezza e vita vera che ciascuno di noi ha dentro di sè e che può cambiare il mondo cominciando da se stessi, dal donarsi, dal farsi solidali con i poveri e da loro imparare.
E’ giunto il momento di Celebrare la Vita: mi accingo ad andare a celebrare la messa in casa della persona ammalata che mi aspetta. Questa è la risposta che sento di dare alle tante domande che ci facciamo riguardo ai  poveri e su come risolvere i loro problemi, la loro miseria…
La mia risposta è entrare in relazione con loro, conoscerli, capire come son arrivati a questo stato, quali le loro speranze e desideri, e con loro fare un cammino di ritorno alla dignità. È una risposta lenta, complicata soprattutto nella sua attuazione, ma che mi sembra quella che ci mette tutti di fronte alle nostre responsabilità. La responsabilità rendere la Vita un dono per tutti e ognuno di noi.
Affido la conclusione a così delicate condivisioni alle parole di Hans Jonas che così ha enunciato il principio di responsabilità:  “Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra”.