Giovani oggi - Anna Corsi - Tutta mia la città, un deserto che conosco?


La città è lo spazio che definisce la nostra storia, è un contenitore di storie passate e desideri che tracciano altre città ideali nella città reale, la nostra. Qualunque quartiere che abbiamo vissuto ci lascia dentro qualcosa, ci sono alberi, palazzi, panchine, gelaterie, biciclette abbandonate, parchi alberati che diventano qualcosa di più, dei segni di riconoscimento che creano quel legame che traduce la città nel nostro mondo.
Come sosteneva Calvino la città come i sogni è costruita su desideri e paure, è un disordine apparente fatto di abitazioni asimmetriche, muri di mattoni o imbrattati da murales, ma è anche l’ordine del nostro mondo interno, dove abitano i nostri ricordi e il nostro sguardo sul futuro. E’ proprio per questo la città diventa il km zero tra passato e presente, che si converte nello spazio vitale dove noi siamo qui ed ora nel quale l’io diventa il noi. La città è forse l’espressione più intensa della vita comunitaria, lo spazio fisico che abitiamo mentre siamo “abitati” dagli altri che ci stanno accanto, che condividono lo stesso cielo, le stesse strade, le stesse pieghe urbane. Paradossalmente il luogo dell’incontro per eccellenza è anche il luogo dello scontro, della paura dell’altro, della distesa di barricate che dividono, che definiscono le zone della città, telecamere che osservano oltre le siepi, anche l’architettura delle abitazioni diventa l’estetica del rifiuto, del rigetto della diversità. Ci sono luoghi destinati all’esilio, quartieri che diventano ghetti, campi di battaglia di guerre silenziose, fatte di distanze indifferenti, ma anche di guerre rumorose, frutto di un sistema sociale distorto (pensiamo ai fatti di Rosarno). Ci sono città come Rio de Janeiro dal cuore di lusso e gli arti debordanti di miseria, ma anche come Milano o Palermo che contengono periferie nelle quali ragazzi abbandonati a loro stessi, traffici di droga e mafia non apparente sono all’ordine del giorno, un destino ineluttabile per i molti che spesso non percepiamo, il lato oscuro e scomodo della città.
La città è quindi una mappa dove costruzioni, luoghi, sentimenti, volti, paure si aggrovigliano cedendo il passo a identità indefinite per le quali il noi è solo una condanna. “Sottile non città fra i tuoi perenni grigi sola” così risuonavano le note del Banco del Mutuo Soccorso, ed è forse in queste parole la vera responsabilità da parte di noi tutti, in particolare delle giovani generazioni, trasformare la non città in città, riportarla a quella dimensione comunitaria propria della polis, un luogo di crescita personale e collettiva. Spesso la città viene considerata come una sorta di nave alla deriva in balia dei venti della politica, tuttavia è necessario riappropriarci del diritto alla partecipazione, recuperare il senso del “giardino pubblico” nel quale tutti coltivano per tutti. Scegliere di partecipare alla cura della città non è solo una scelta etica, nemmeno solo politica ma è una scelta che ci condiziona da dentro, in primis come persone, ci educa a uno sguardo nuovo, più attento, più critico nei confronti del sistema cittadino. La partecipazione è uno squarcio nel cielo di cartapesta dell’omertà, dei silenzi, della lamentela e dell’analfabetismo amministrativo. La tendenza alla passività c’è, non si può negare, spesso la città diventa un semplice agglomerato urbano nel quale nemmeno investiamo il nostro tempo, semplicemente perché non la guardiamo, non conserviamo la memoria, la prendiamo così com’è, senza riconoscere le sue ingiustizie, le sue barricate, senza amare la sua imperfezione e la sua bellezza.
Pensare globale agire locale, e per questo che città sostenibile significa forse mondo sostenibile, essa dovrebbe essere il modello del pianeta che vorremmo, prima di voler cambiare il mondo prova quindi a partire dalla tua città! Tuttavia anche i comuni hanno una responsabilità nel rendere lo spazio comune un luogo d’azione e di pensiero, nel quale non si subisce ma s’impara a scegliere e a sporcarsi le mani: una possibile soluzione sarebbe incentivare le politiche di partecipazione giovanile (un esempio è Campus di Alba Chiara a Montecatini), valorizzare i giovani emergenti e lasciare spazio al saper fare dei ragazzi. In fondo la città ideale è l’ombra di quella reale, di quella che all’inizio spaventa, nella quale sembra non funzionare nulla, ma poi diventa un campo da gioco stimolante in cui mani e testa si possono mettere all’opera. Giovani che da consumatori diventano creatori di città. Spesso mi chiedono se sento la mia città una città giovane ma rimango dell’idea che la distinzione è tra città svelate (ossia riconosciute e quindi vissute) e città criptiche, i cui segni non sono percepiti nelle quali si abita senza chiedersi il perché.
Dunque si cerca una responsabilità condivisa, sia da parte dell’istituzione che ha il dovere di formare e informare i giovani, solo così potremmo contribuire a dare forma alla città, evitando di diventare spettatori passivi di uno spettacolo, che spesso non coinvolge più di tanto. Un grembo di mura spigolose e tetti sregolati è questo spazio che ci ospita, è un corpo che respira, un segno che una comunità esiste. Ma esistere non basta! Bisogna imparare ad essere comunità, comprendere i veri bisogni delle persone, fare della differenza non solo una ricchezza ma una reale possibilità di cambiare l’ordine della società, per imparare un nuovo modo di stare al mondo.
“Io sono sempre più solo ed intorno la mia città cravatte di seta di povera gente che vive dentro un metrò”, per dirla alla De Gregori, la comunità è l’unica via di scampo alla solitudine, alla sterilità dei sogni e all’appassire degl’ideali. La città è un esperimento comunitario, che spesso fallisce, che spesso ci riconduce alla nostra marginalità di fronte a un sistema troppo grande, ma è anche la nostra responsabilità di fronte a ciò che abitiamo, a ciò che ci circonda e a alla nostra identità di “animali sociali”
Non vedere la città, ma esserne inglobati e uscirne diversi, perché la città è il luogo del cambiamento, la cartina tornasole di come gira il mondo. E’ uno stato d’animo costellato da case, giardini, edifici pubblici, lampioni, ferrovie, che ci riconducono inevitabilmente a quel senso di appartenenza a una stessa geografia esteriore e interiore.
Ed è qui la chiave di svolta, l’appartenenza! Non come lo sforzo di un civile stare insieme, o di un normale voler bene ma aver gli altri dentro di se, grazie Gaber! La città siamo noi e il nostro modo di esistere dentro km quadrati pieni di storie che inevitabilmente ci appartengono, di sogni condivisi e di progetti che tessono legami. E fu così che la città invisibile agli occhi della gente divenne visibile, questa non è il l’ impossibile dispiegarsi di un’utopia, ma il sogno urbano a cui tendere per imparare a desiderare una città diversa. Un po’ migliore e paradossalmente un po’ più umana.