Cinzia Vaccari
Carlina, scusate il disturbo


Cinzia Vaccari è un’operaia metalmeccanica


Carlina non è sempre stata quella che sono oggi. Venti anni fa passeggiavo in centro, sfilando su tacchi costosi comprati nei miei sabati di spese a relax in questi negozi dalle vetrine sazie, sempre piene e splendenti.
Oggi come ieri, da ogni parte d’Italia, le persone che possono permetterselo vengono a fare il loro shopping qui, nella bella, ricca e grande Milano. Comprare nei nostri negozi per molti ha un suono e un sapore che non si gusta in altre città.
È così, veramente, spendere fa rumore, produce musica e ha sapore. Un sapore che ti prende dentro, quasi a darti un senso di pienezza.
Per molti è così, e lo era anche per la sottoscritta. Mi riempivo svuotando il portafogli, compravo e mi sentivo meglio.
Che frasi stupide quelle che si sentono spesso sulle labbra di molti: “Comprarsi qualcosa fa sentire meglio” oppure “Sono giù, fuori forma, esco e spendo, che aiuta”. Sì, aiuta sicuramente.

I commercianti.
Che pirloni che siamo, permettiamo al soldo di distoglierci dal resto, ma soprattutto da noi stessi. Eh, sì, è più facile spendere che farsi un’analisi personale che ci faccia capire perché siamo tristi o infelici. È di gran lunga più semplice regalarsi qualcosa che fare autocritica, che non ci piace e ci tocca da vicino, molto in profondità. È faticoso e crea sensi di colpa di cui non vogliamo sentire il peso.
Lasciamo perdere questa premessa, che suona anche antipaticamente fastidiosa. Esistono professionisti strapagati, lì, pronti a fornirci tutte queste risposte. A me serviva partire da qui per raccontarvi la mia storia.
Nel 1987 ero bella, carica con il mio piccolo mondo fra le dita, che oggi guardo e fatico a riconoscere l’attaccatura delle unghie alla carne dal gran nero che vi abita. Seduta su questi gradini bianchi di marmo, freddo zerbino che da secoli dà il benvenuto ai visitatori, appoggiata su un sacco vuoto, irrigidita dal freddo, al quale il mio corpo dovrebb essere abituato da anni di addestramento forzato, mi obbligo a concentrarmi su un pensiero unico, non importa quale, basta che sia uno. Il mio cervello non è più quello di un tempo.
Ripercorro velocemente, per quanto mi sia possibile, gli anni a ritroso fino a trovare il punto esatto, la rottura della mia vecchia vita caduta a terra e frantumatasi come quei bicchieri che chiamano infrangibili, ma che cadendo in un determinato modo esplodono in una ghiaietta di vetro, granita tagliente.
Eccomi, Carlina, barbona di Milano, seduta sulla scalinata del Duomo, dove non dovrei stare in quanto posto vietato a noi brutti sporchi barboni, disturbi alla bellezza architettonica, neo visivo per i turisti.
Tanto le persone sanno che quelli come me esistono, ma non si devono vedere. Tenuti nascosti come colletti di camicia consumati ma ripiegati, la donna che cuce sa che il collo di questo capo ancora buono è stato girato allo sguardo di tutti, ma c’è, e lei lo sa. Le persone “normali” fanno così: non vedono e in automatico è un problema che non esiste.
Mentre resto seduta qua, aspettando il vigile municipale che malamente mi scaccerà via, mi soffermo a pensare che sono sporca, ma sicuramente lascio in questa mia sosta meno di quello che regalano al nostro bel piazzale del duomo questi piccioni. Occhietti piccoli e nervosi si guardano intorno, in cerca di briciole di cibo che qualche turista lascia, in faccia ai divieti, per loro. Una cosa mi accomuna a queste stupide creature del regno animale, i parassiti che corrono e lavorano tra una piuma e l’altra non sono poi così diversi da quelli che abitano la mia pelle e si nutrono di me. Saranno parenti! Io non ho un becco per stanarli, ma le mie mani si muovono continuamente per spostare il prurito da una parte all’altra in questa danza frenetica, quasi a sembrare un tic nervoso agli occhi schifati dei passanti.
Mentre mi spazzo il naso sulle maniche che ricoprono le mie braccia, strati di stracci su stracci sulla carne, maniche indurite dal muco di mesi asciugatosi lì, osservo una bella figura femminile, ferma poco distante da me, controllare ripetutamente il suo esile polso, segno che qualcuno da lei atteso è in ritardo. La vedo rispondere nervosamente al suo cellulare di ultimo modello, dotato di tutto, TV, telecamera, macchina fotografica… mi domando che bello sarebbe se facesse anche il caffé e, perché no, il bucato.
Spostandosi velocemente dopo aver sentito un mio colpo di tosse carico di morte, si sistema poco più in là, ma riesco a vederla bene ugualmente. Spiandola, la passo in rassegna e mi rivedo in lei venti anni fa.
Lavoravo nella segreteria di un illustre personaggio politico. Più che la sua idea politica avevo sposato l’alto stipendio che percepivo tutti i mesi, e un corposo rimborso spese in cui facevo rientrare tutto, persino l’onorario di estetisti e parrucchieri. Un lavoro che adoravo non per la mansione svolta, ma perché mi permetteva di vivere ad un tenore alto.
Vengo distratta dal mio pensarmi tanto lontana da un attacco di tosse violentissimo, che mi lascia la bocca inondata di catarro e sangue. Non riesco e poco m’impegno a trattenermi, e tutto finisce in una macchia rossa e viscida tra le merde di questi uccelli.
Sarà un pensiero di chi passeggia schivare tutte e due le cose.
La donna poco distante mi lancia uno sguardo misto di spregio e rabbia e si sposta definitivamente da me. Vedo e raccolgo il mozzicone di sigaretta che ha lanciato prima di allontanarsi, fumato nemmeno a metà. Chissà, forse lo spettacolo che ha visto un attimo prima l’ha convinta a smettere di fumare.
“Brava, Carlina, hai salvato una vita!” urlo mentre scoppio in una risata, anch’essa malsana. Il filtro di questa sigarettina bianca e sottile tra le mie dita nodose e laide è violato da un bel rossetto rosso, stampino di labbra a bacio che mi regala profumo e aroma di una precisa marca di cosmetici, che mi ricorda il profumo di serate mondane e di incontri galanti.
E torno al punto in cui mi ero fermata, torno al vivere di un tempo.
Ero padrona di un delizioso attico in via Montenapoleone. Alla sera, quando il cielo si spegneva e la mia città si accendeva di artificiale dall’alto del mio splendido balcone, piazzetta volante, potevo ammirare Milano e mi reinnamoravo ogni volta di lei.
Le mie giornate stracariche di tutto erano sempre una pagina d’agenda carica di Post-it dai mille colori. Fogliettini che mi rincorrevano ad ogni ora del giorno e spesso anche della notte.

Eccomi cacciata via dal mio giardino, sono un fastidio che l’uomo in divisa deve rimuovere. Poco importa, andrò ai giardini pubblici, altro posto vietato ai randagi, a cercare una fontanella dove bere e sciacquare via l’impasto di fiele che abita la mia bocca, dove anche gran parte dei denti si è rifiutato di abitare.
Che bello il parco, anche quando la stagione punge come ora. Le mie labbra restano incollate per il freddo al rubinetto della fontanina che mi ha appena dissetato, le forzo ad aprirsi e un velo di pelle che le ricopre resta a ricordo del passaggio della mia bocca. Sorrido a questo stupido pensiero: un tempo questo incidente di percorso mi avrebbe fatto innervosire, ma all’epoca qualunque cosa esulasse dalla mia scaletta mi avrebbe mosso rabbia. Non avevo cose o pensieri più importanti.
Ero carica di nulla, pienissima di niente, bellissima fuori e vuota dentro come quelle belle scatole di latta che offrono biscotti danesi dopo un the del pomeriggio.
Cerco la seduta della panchina. Voltandole le spalle indietreggio fino a sentirne il freddo attaccato alle mie gambe, mal coperte da queste gonnone di fortuna prese alla comunità di don Gino Rigoldi, e indossate una sull’altra a fare peso. Calze a gambaletto sotto il ginocchio, misura e colore che non esistono nella cartella colori di nessuna azienda di tessuti.
Mi passa davanti una ragazza tutta footing e yogurt. «Corri, corri!» le grido, ma non mi sente, perché per resistere alla corsa si sta violentando i timpani con l’ultimo modello di mp3 o che so io. Sono rimasta indietro su questo, e anche questo fa volume alla mia scelta, quella di essere altro.

Eccomi di nuovo sola con il mio ricordare, era proprio così che iniziavano le giornate.
Sveglia presto, corsa a sfinimento, violenza inaudita agli arti ancora caldi di sonno, doccia gelata per lavarmi via sudore e bagordi della notte precedente. Caffé lungo e amaro, e voglia di croissant con tanta marmellata, che però restava tale perché la dieta ferrea per conservare la mia taglia da sogno non me lo permetteva. Ho trascorso anni nella privazione del piacere del cibo, e ora mangerei le vetrine alimentari compreso il vetro e… chi le occupa.
Arrivavo in ufficio tirata a lucido effetto catarifrangente, sfilavo davanti alle mie colleghe con la presunzione e l’arroganza di chi sa fare invidia e godevo di questo.
Pranzi e cene di lavoro scanditi da aperitivi in questi bar stupendi che possiede questa città, dall’alto dei miei tacchi a spillo e del mio vestire che nulla si differenziava dalle miss che si vedevano sulle pagine patinate delle riviste più prestigiose di moda, italiane e straniere. Se penso alle tavole e ai buffet colmi, profumati e rivestiti di ogni pietanza che hanno visto i miei occhi… se li chiudo riesco a vedere il fumo bianco sollevarsi dai pianti bollenti di tutto.

Che fame che ho!
Che ora sarà? Dove e cosa troverò di che sfamarmi prima di mettermi alla ricerca di un posto per la notte, che tra l’altro si prospetta gelida! Altro che lenzuola di seta color avorio ricoperte da un piumone imbottito di piume d’oca fino a tirare le cuciture che le contenevano, nel mio appartamento super riscaldato. Vorrei dormire e riposare tranquilla senza litigare con qualche mio simile, ubriaco e pieno di zecche che passano continuamente tra lui, noi e tutti i cani che vengono ad accucciarsi con noi perché non amano stare soli.
Mentre mi sfrego le gambe per scaldarle, le osservo e, paragonate a quelle della donna che ero, non le riconosco più. Quelle di oggi sono cariche di peli, varici e stanchezza. Una stanchezza livida come loro. Mi decido.
Devo assolutamente mangiare e dormire.
Mi sollevo a fatica e mi sento come un muratore con dei sacchi di cemento in spalla.
Cosa passerà il convento? Quale sarà il menù consigliato dalla comunità questa sera? Spero proprio che ce ne sia a sufficienza per tutti. Immagino già la fila alle porte di chi ci sfamerà e, arrivata, cerco con lo sguardo chi saranno i compagni seduti al mio tavolone. Poco importa, tanto tutti mi conoscono come Carlina la muta o Carlina la tisica, perché è di questo che presto morirò.
Continuo a tossire e vomitare sangue in una pozzanghera ai miei piedi per non strozzarmi, e mi auguro, tra me e me, che questo giorno arrivi presto.

Letto vista cielo, senza stelle.
Sono qua, sotto i miei cartoni, che riconosco a naso perché puzzano come me, un misto di sudore, fumo e alcool.
Aspetto che il mio corpo e la mia mente cadano in questo riposo che tanto cerco, tremo e sono certa che non sia questa notte ghiacciata l’unica colpevole di questo.
Cerco di elencare, come tante pecorelle diligenti che saltano il recinto della conta per il sonno, di ricordare il come sono arrivata qua, il come sia la mia vita ora sotto questo cielo che sputa nebbia ma non è più tanto chiaro, né importante. Ci sono e questo fa di me Carlina, una persona con la propria vita a margine come tanti.
Buona notte Carlina mia, mi dico mentre sopraggiunge finalmente un sonno misto a svenimento. Saliva e sangue mi cominciano a rigare la guancia uscendo lentamente dalla
bocca dischiusa del mio russare ancora da sveglia e l’ultimo ricordo che ho è quello di scommessa con la vita che forse domani mattina mi rivedrà svegliarmi sul bordo di questa panchina vicina alla Fontanina.