Antonietta Potente - Natura morta non è un titolo ma una constatazione


Natura Morta è la denominazione che si dà a rappresentazioni di forme ed oggetti inanimati, in un quadro. I temi principali di queste composizioni, sono quasi sempre fiori recisi, frutta, verdura, vasi, libri, strumenti musicali e vari tipi di oggetti della vita quotidiana. Un gusto sottile, per l’inanimato che accompagna la storia dei popoli dalle più remote antichità culturali, quasi come un primigenio desiderio di esaltare i dettagli della vita, per non perdere l’importanza delle loro luci e delle loro rispettive ombre.
Natura, dunque, un termine ambiguo, visto che parliamo non solo di fiori recisi, rami, ma di oggetti, appena appoggiati alle superfici piane delle nostre giornate. Natura morta, sottile espressione di una passione dei miniaturisti olandesi del sedicesimo secolo, fortemente attratti dalle forme e dai dettagli della quotidianità. Caravaggio, gli impressionisti, Cezanne… Una serie di visioni che sembrano fermare il tempo o per lo meno, che ci permettono di concentrarci su di esso.
Ma questo titolo che abita i miei pensieri ora mai da parecchi giorni, non nasce per aver osservato una mostra di artisti famosi esponenti dello spirito più bello di questo impressionismo inanimato. La mia inquietudine non gira attorno a un quadro, e nemmeno a uno stile pittorico, anche se bello e significativo, ma piuttosto attorno ad un avvenimento terribilmente reale, che supera ogni impressione e che commemora -come se fosse qualcosa di conosciuto- le tante nature morte che a volte si impongono ai nostri sguardi distratti o solamente egocentrici.
Natura morta non è un titolo, ma è una constatazione, tra impotenza e choc delle immagini di un terremoto, il terremoto di Haiti.
Natura Morta, arte inanimata e qui si tratta di pezzi di pseudo cemento; natura morta, oggettistica di un paese che di oggetti ne ha sempre avuto molto pochi, brivido di qualcosa che resta lì, immobile, ma che, contrariamente a ciò che diciamo di un quadro, non evoca l’inanimato, ma piuttosto la sospensione di ogni giudizio teologico, morale, sapendo che se apriamo la bocca, corriamo il rischio di diventare subito, stucchevoli consolatori o abili moralisti, sicurissimi delle cause e ugualmente sicuri degli effetti, come gli amici del personaggio biblico: Giobbe.
Haiti, frantumazione vera e propria di un mosaico, simile ai mosaici dell’epoca ellenica, decorazione di pavimenti che rappresentavano resti di cibo e –in alcuni casi- strati di polvere. Ma in questo caso, questi frammenti, non rivestono la totalità di un quadro, ma quella di una storia interrotta. Una vera e propria cortina di polvere che vaga negli interstizi del caos. Non è il primo terremoto della storia, ma come ogni terremoto sembra essere il più forte e il più disastroso e, forse, questo lo è davvero.
Mentre scrivo sono in Perù, in una zona che porta ancora i segni -appunto- dell’ultimo terremoto di 2 anni fa, dove alcune costruzioni si sono improvvisamente immedesimate con la terra su cui erano appoggiate e sono restate lì per ricordare questo difficile dialogo tra noi, abili e intelligenti esseri umani e un linguaggio puramente sapienziale e disarmato come è quello della natura, del cosmo, dell’ecosistema e dei suoi segreti equilibri e squilibri.
Dettagli e ancora dettagli, come la presenza di una mosca che ricorda che la concezione di morte è relativa alle nostre visioni, così come relativo è il concetto di salvezza. E questa volta, in Haiti, sembra che non si sia salvato proprio nessuno, secondo il criterio delle statistiche più comuni, che divide le case dei ricchi da quelle della maggioranza delle persone; le chiese e le case religiose da quelle di tutti coloro che ad Haiti vivono non per scelta, ma perché non hanno intravisto altre opportunità, o dove magari la opportunità della terra vicina, che è Santo Domingo non le è risultata così favorevole come pensavano. Ma a Haiti questo non è successo, è crollato tutto, senza guardare in faccia nessuno. Tutto è raso al suolo: sedi dei ministeri, mercati, ospedali, scuole, chiese, conventi… persino il Palazzo Presidenziale.
E allora dalla natura morta, passiamo ai quadri della geometria frattale di pittori moderni e postmoderni. Passiamo a tutte quelle forme spezzate che si impongono ai nostri sguardi per vedere, ancora una volta se riusciamo, per caso, a riscattare i dettagli di un insieme di storie e vite che, forse, sarebbe stato meglio se ci avessero interessato prima. Frammenti che ricordano un kairos dietro l’altro, e si impongono per vedere se davvero da ora in poi riusciremmo a fare memoria sempre, di tutti coloro che abitano la storia e non solo nei momenti in cui la rabbia della natura, attrae l’attenzione e la tecnologia ce li mostra, con la sua abilità virtuale.
Natura morta dunque, è l’eco di questa storia, che nonostante tutto è viva e animata. Storia che, guarda caso, ci arriva dopo le solenni riunioni di Copenaghen come per dirci che probabilmente i cambi climatici sono molto di più che iniziative prese anarchicamente dal cosmo, ma lenti stillicidi di politiche ed economie dissanguanti su popoli che non interessano a nessuno o a pochi. Veri e propri lembi di terra lasciati alle intemperie di uragani, cicloni e così via, o bersaglio strategico in un raggio di chilometri dove possono giungere le “onde d’urto” degli sperimenti del famoso progetto HAARP. In pieno Artico, infatti, in uno dei luoghi più inospitali del pianeta, situato a 300 kilometri dalla capitale dell’Alaska, si trova la sede di questo progetto, la cui sigla significa:  
High Frecuency Active Auroral Research Program (Programa di Ricerca ad Alta Frequenza di Aurore Attive). Un punto strategico da cui si sta svolgendo delle prove di un sistema di armamento destinato a provocare cambi di clima o trasformazione di fenomeni naturali, tra cui terremoti, facendo della natura un’arma di distruzione massiva. Ma l’HAARP, non è una novità, gli organismi governamentali sulla sicurezza, lo sapevano da molto tempo. Il Parlamento Europeo aveva già denunciato pubblicamente -risoluzione del 28 di gennaio del 1999- la pericolosità di questi folli esperimenti, promossi dagli USA. Ma dato che la maggior parte di questi effetti sono rivolti a determinati paesi, ogni allarme è sempre troppo debole. Una vera e propria guerra climatica che comincia a dare i suoi devastatori risultati: siccità, inondazioni, piogge e terremoti.
Una nuova serie di armamenti per poter cambiare il corso della storia, là dove i popoli fanno capire che esistono ancora alternative di recupero tra strategiche sapienze e creatività politiche di alcune culture. Ma probabilmente, a questi signori, non gli è rimasto altro che provare ad allearsi con la natura per poter sostenere il corso che loro stessi hanno dato alla storia. r gli haitiani, ma per tutti noi che attoniti guardiamo e pensiamo come poter vivere ancora e come permettere che questo irridu

Questi momenti ci fanno sentire che la vita non si programma solo con la visione ordinata, prospettica e oggettiva delle cose e che non tutto può convertirsi in profitto, in accumulo di denaro e dunque di potere, dividendo la storia in due, tra ciò che serve e non serve. Haiti e la sua storia è stata sempre abbandonata a se stessa e guarda caso, è una storia che porta nelle sue vene i colori dell’Africa e i geni di antichi popoli visti comunque e sempre come mano d’opera ad uso e consumo di qualcuno. Oggi Haiti è l’emblema di una natura sfruttata come i popoli considerati schiavi da sempre, adatti per spremere o per mandare alla guerra. Oggi alla guerra ci mandiamo anche la natura.

Allora si capisce perché “natura morta”: Haiti è davvero un enigmatico quadro che porta questo titolo. Fine di una prospettiva apparentemente inanimata. Un forte scrollone, anche per le nostre strategie comunque ambientali sempre legate alle strategie economiche e politiche dell’assurda sete di potere e di immortalità del nostro potere. Deformità della psiche umana, concentrata su di sé e sui suoi assurdi bisogni. Sottile sforzo, rottura dell’estetica e dell’etica. Haiti è grido, irruzione improvvisa, purtroppo, però, sembra che, per attrarre l’attenzione, abbiamo ancora bisogno di ascoltare e vedere drammi umani e cosmici. Sì, perché in effetto ci sono popoli di cui sentiamo parlare solo quando capita qualcosa di veramente drammatico, ci sono stati che anche se un tempo erano considerati “colonie”, oggi sono spariti dalle nostre mappe internazionali, nonostante le richieste quotidiane di aiuto.

So benissimo che in questo momento ogni commento può sembrare retorico, ma purtroppo questa è la realtà; il terremoto di Haiti è probabilmente il ruggito di una storia ascoltata solo come gemito e mai presa in considerazione.
Nella filosofia, molti dicono che l’essere umano prende coscienza della morte per la schiacciante evidenza di un cadavere. Questo adagio teorico mi sembra particolarmente vero quando parliamo dell’attenzione dell’opinione pubblica sulla storia di popoli considerati come appendice del pianeta o della umanità. Probabilmente l’esperienza immediata del vivere e dunque della morte, ci potrà svegliare ancora.
Di fronte a Haiti, così come di fronte alle metamorfosi cosmiche e umane, che si danno ogni anno e più volte all’anno in lungo e in largo nelle nostre geografie, cade ogni ragione quantitativa e meccanicista della vita che appare scandalosamente incompleta e si evidenzia la mancanza non solo di una ragione ecologica ma di una sensibilità che, al più presto, si trasformi in etica.
Oggi come oggi, è chiaro, perchè siamo arrivati al limite, che né gli esseri umani né il pianeta o il cosmo intero, possiamo essere considerati come oggetti di compra-vendita e veri e propri strumenti di morte. Oggi come oggi, né le ideologie, né le dottrine possono più trattare la vita come fosse un oggetto, oggi il nostro contesto non è un mondo di oggetti umani o cosmici, ma un mondo di soggetti vivi, anche quando ara mai appaiono silenziosamente immortalati sotto le macerie.

Mi vengono in mente le parole di Westbroek: Che strano è questo nostro pianeta! La Luna, Venere, Marte… non sono né morti né vivi, ma stanno lì semplicemente. La Terra è l’unico luogo del sistema solare dove la vita e la morte hanno potuto emergere; dove esistono cose organizzate, che acquisiscono significato e dopo soffrono perturbazioni e sono distrutte; dove la bellezza e l’armonia sono intimamente vincolate a la tragedia, alla sofferenza e alla fedeltà… (Cfr.Westbroek P. Life as a Geological Force. Nueva York, 1992)

Chissà, forse è proprio questo il problema: una vita troppo dipendente dal mercato, dall’economia , una vita troppo organizzata da questi criteri oramai divenuti così importanti che non possiamo farne più a meno. Una vita dove alcuni cercano di gestire e fanno di tutto per allontanare tragedia e sofferenza da sé sospingendola verso altri, soprattutto quando questi altri servono solo come mano d’opera.

Con tutto ciò sento, che come sempre ogni riflessione e ogni commento su questo tema è insufficiente. Sono cosciente che il problema degli esperimenti dell’ HAARP no è l’unico capro espiatorio da cercare in questa triste storia del cambio climatico. Mi rendo conto che è onesto e realista, lasciare spazio anche ai segreti della natura, del cosmo, come segreti ancora incontrollabili; alle sue reazioni che non conoscono geografie e colonizzazioni tracciate da noi esseri umani e dal nostro modo di gestire la storia. Però, sì, mi sembra importante tenere in conto che le strategie dell’egocentrismo umano sono molteplici e imprevedibili, forse gareggiando con quelle delle evoluzioni più segrete dei bassifondi terrestri. E come promemoria riporto qui due affermazioni prese dalla lettera che il Presidente Boliviano Evo Morales Ayma, scrisse rivolgendosi ai signori riuniti in Copenhagen.
“In poco più di due secoli i paesi industrializzati hanno consumato gran parte delle risorse di combustibili fossili formatisi in circa 5 milioni di anni …il capitalismo è la fonte dell’asimmetria e dello squilibrio nel mondo…e così come il mercato non è capace di regolare il sistema finanziario e produttivo del mondo, allo stesso modo il mercato non è capace di regolamentare le emissioni di gas con effetto di riscaldamento.” e, aggiungo io, non solo le emissioni di gas, ma tante, tante altre cose.