L’importanza di farsi coinvolgere contro ogni presunzione – Stefano Giudici

Willy Mutunga è l’attuale Chief Justice della Repubblica del Kenya, il numero uno del sistema giudiziario kenyano. È stato nominato ed eletto l’anno scorso; ha alle spalle una lunga carriera come avvocato e giurista, e come attivista dei diritti umani e delle riforme che lo ha portato anche all’arresto durante la dittatura di Moi negli anni Ottanta.

Dopo l’elezione a Chief Justice, la prima uscita semi-ufficiale è stata a Korogocho, “un ritorno a casa” disse in quell’occasione, e un riconoscimento del fatto che molto della sua formazione di attivista dei diritti umani proveniva da lì, soprattutto da St. John Catholic Church e da p. Alex Zanotelli.

Martedì 25 Settembre Mutunga era l’ospite d’onore alla celebrazione per la consegna a p. John Webootsa, comboniano a Korogocho, del premio indetto dalle ambasciate di Francia e di Germania in Kenya in riconoscimento a persone particolarmente impegnate nella difesa dei diritti umani e nello sviluppo della comunità civile. Un riconoscimento significativo, un apprezzamento importante del lavoro che da anni viene portato avanti a Korogocho dalla comunità e dai Comboniani.

Nel suo brevissimo discorso, Willy Mutunga è stato come sempre molto preciso ed efficace. Ringraziando p. John per il suo lavoro, ha espresso due concetti fondamentali per comprendere il vero significato e le vere implicanze di un lavoro per la giustizia e la pace e per la riforma della società. Il primo concetto è quello di “attivista missionario”: Mutunga non dà ovviamente un significato religioso a questo termine, ma lo usa per dire che un attivista deve essere ben radicato, inserito e inculturato tra le gente che vuol servire e animare. Non serve a nessuno, sicuramente non serve alla gente, un attivista che dice di lavorare per lei e con lei, ma è lontano anni luce dalla sua realtà. L’accusa risuonata più volte nella sala quella sera, sia da parte di Willy Mutunga che da parte di p. John, era che ci sono troppe organizzazioni e singole persone che pretendono di lavorare per la giustizia e la pace, e di poter influire sul cambiamento della società, facendolo però dai grandi hotel di Nairobi o dai quartieri centrali della capitale dove si trovano le sedi di quasi tutte le grandi ONG. Sono persone e ambienti molto spesso autoreferenziali, che si parlano addosso senza minimante raggiungere il cuore del problema, né tantomeno il cuore delle persone. C’è molto spesso uno scollegamento enorme tra la realtà della gente e quella di chi si fa paladino dei suoi diritti e avvocato del suo cambiamento.

Non c’è bisogno di dilungarsi troppo per accorgersi -basta un po’ di onestà intellettuale- che questa è una malattia che afflige la società civile non solo in Kenya ma in tutto il mondo, Italia compresa. Per essere veramente efficace, l’attivista deve essere ben inserito nella realtà che sta cercando di trasformare, assumerne tutte le fatiche e contraddizioni, sentirne tutto il peso e il dolore in prima persona, e soprattutto lasciarsi coinvolgere (più che coinvolgere) dall’agente primario di cambiamento già attivo sul territorio: la gente stessa.

E qui arriva il secondo concetto espresso da Mutunga quella sera: l’attivista deve essere “ponte”, non solo tra le composite diversità presenti nella nostra realtà (in Kenya il riferimento è alle varie etnie del Paese) ma soprattutto -era il punto centrale del discorso di Mutunga- tra la base e l’ambiente delle ONG e istituzioni governative. La base ha bisogno di agganci per diventare sempre più influente negli ambienti dove vengono prese decisioni vitali per milioni di persone. Al tempo stesso i colletti bianchi di queste ONG hanno un assoluto bisogno di fare un bagno nella realtà concreta della base e possono farlo solo attraverso chi in questa realtà ci vive da sempre. Il vero attivista non può rinunciare a nessuna delle due componenti, ma al contrario deve farsi lui stesso ponte tra questi due mondi che al momento sono ancora due ma che possono e devono diventare uno.

In circa cinque minuti di discorso, Willy Mutunga ha sintetizzato le due malattie più gravi che possono colpire un attivista della società civile, e che, a mio modesto avviso, sono già purtroppo ben diffuse: lo “scollegamento” e la “presunzione”.

“Scollegamento” dalla realtà vera della gente, quella normale e semplice, i veri poveri anonimi e indifesi, quelli che hanno sempre pagato e continuano a pagare i conti di un’economia impazzita e di una politica servile. Facciamo proposte, invochiamo riforme, auspichiamo cambiamenti, ma di tutto questo alle orecchie della gente arriva ben poco, e forse è capito ben poco. A chi stiamo parlando? Chi sono i nostri veri interlocutori? La cosa più grave sarebbe farci rappresentanti di coloro che non ci conoscono e che noi non conosciamo, e che, a guardare bene, non ci hanno dato nessun mandato di parlare a loro nome.

“Presunzione” di poter pensare che la società civile, anche quella più sana e più vera, possa continuare questa lotta da sola, senza bisogno di agganci concreti, efficaci nel mondo della politica. Non basta dire che è difficile entrare in politica e rimanere puliti e onesti, per dismettere per sempre il tentativo. I nostri sogni di cambiamento, sempre più precisi e realizzabili, hanno bisogno di una politica onesta e credibile, e hanno bisogno di persone concrete che possano entrare nella “stanza dei bottoni”, dove si prendono le decisioni che contano. Altrimenti altri prenderanno queste decisioni a nostro nome ma nel modo sbagliato, e noi, società civile, continueremo a fare proteste, campagne e scioperi per cambiare quelle decisioni. Il risultato può essere buono, ma si spende tempo, energie e risorse inutilmente. Bisogna cambiare la mentalità di chi fa le leggi, non solo cercare di cambiare le leggi.

Tutto questo, visto da Korogocho, è di un’importanza vitale. Da qui vediamo troppe volte quanto queste due malattie siano diffuse e stiano consumando come un cancro tutte le energie e risorse di chi vuole impegnarsi. Vediamo la mancanza di coerenza di tanti soggetti, governativi, civili ed ecclesiali, che si limitano a pianificare e valutare ma mancano totalmente di incisività e prospettiva politica. Vediamo ogni giorno la sofferenza, delusione, frustrazione della gente che si sente ancora una volta defraudata e imbrogliata, non più dai noti che da sempre la derubano, ma da coloro che dicono di volerla aiutare. E questo è inaccettabile.

Korogocho e tutte le Korogocho del mndo hanno bisogno di gente nuova e di attivisti missionari, creatori di ponti e capaci non solo di sognare ma di realizzare questi sogni. Abbiamo bisogno di gente nuova per una nuova politica, perché la politica torni ad essere Politica, la forma di carità più alta per un laico cristiano.

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