La Libia e la guerra, antitesi di umanità
26/03/11 09:57 Categoria Opinioni
Negli ultimi giorni si è discusso molto a proposito dell'intervento in Libia, le sue ripercussioni sulla politica mondiale e gli scenari futuri. Un intervento militare largamente giustificato per ragioni umanitarie. Un intervento necessario per fermare il dittatore mostro che reprime il suo stesso popolo in un bagno di sangue. Per porre freno al delirio del Raìs, l'Occidente è passato, usando un'espressione felice della De Gregorio, “dal baciamano ai Tornado. L'amico Gheddafi, in una frazione di secondo, è diventato un nemico” (21 marzo 2011). L'alleato si trasforma dunque in un batter d'occhio nel tiranno sanguinario da reprimere con ogni mezzo, nell'essenza stessa del male che l'Occidente ancora una volta deve estirpare.
La storia dell'intervento umanitario però francamente non convince. Specialmente per due motivi: da una parte una ragione temporale, dall'altra di coerenza. Per quanto riguarda la dimensione temporale, che Gheddafi fosse un tiranno e un dittatore sanguinario non è scoperta recente. Il pericolo dato da 'amicizie pericolose' che l'italia, e più in generale l'Occidente, si prodigava a mantenere con gesti anche umilianti (ad esempio il famoso baciamano di Berlusconi a Gheddafi) era stato fatto presente già in passato, così come erano emerse foto vergognose di veri e propri lager libici e varie organizzazioni, quali Human Rights Watch, avevano denunciato i maltrattamenti che migranti e clandestini subivano in Libia, già nel 2009 e negli anni precedenti. Questo comunque accadeva marginalmente, per la maggior parte la stampa occidentale osannava Gheddafi, politicamente visto come poliziotto di un'immigrazione clandestina potenzialmente incontrollabile, garante di stabilità nella regione e soprattutto Re dell'oro nero. Così per 40 anni l'Occidente ha taciuto, inghiottendo abusi e crimini mascherati da eccentricità da parte di un “amico” con molte risorse e tanti tanti soldi.
Se è dunque vero che qualcosa doveva pur esser fatto per fermare un vero e proprio massacro alle porte dell'Europa da parte dell'amico ora nemico per mezzo secolo incontrastato, le domande brucianti riguardano i tempi e i modi. Le due questioni sorgono spontanee: perché si interviene solo ora, dopo avere tollerato per 40 anni un governo sconsiderato e sanguinario; e perché con la guerra – in ultimo luogo una sconfitta per tutti? Come la De Gregorio accompagnata da molti altri sostiene, la guerra è veramente l'ultimo dei mezzi, la politica invece dovrebbe essere il primo. Gheddafi poteva – doveva – esser fermato prima, molto prima e ciò poteva esser fatto in vari modi: sanzioni economiche, mezzi diplomatici e azioni di pressione contro un governo che da tempo inviava segnali pericolosi. Invece, l'Occidente ha aspettato, spettatore silenzioso di gravi violazioni di diritti umani, pratiche illegali e altro in nome di due supreme ragioni: approvvigionamento energetico e stabilità. Però, nel delicato equilibrio dato da amori di convenienza, una volta indebolito e inutile, l'amico del giorno prima diventa nemico, e si interviene dunque per cancellare il matrimonio farsa con un divorzio lampo. La Francia di Sarkozy interviene in prima linea, gonfia di retorica umanitaria, per cercare di salvare una politica estera traballante e di rialzare i consensi di un governo ai suoi minimi storici. La Libia può essere una buona carta, anzi l'unica e decisiva, per poter rivincere le elezioni ormai vicine. L'America di Obama, titubante, si accolla il “fardello”, l'Italia di Berlusconi segue per non rimanere 'ultima ruota del carro' e per scongiurare il pericolo di aver come unico 'guadagno' un'ondata biblica di profughi e migranti non accompagnati da petrolio, l'Occidente quasi intero per accaparrarsi un posto in prima fila nell'approvvigionamento del petrolio – da sempre portatore di disgrazie per chi lo possiede.
Per quanto riguarda i modi, la questione centrale qua è la coerenza. Perché parlare di diritto di autodeterminazione del popolo libico, quando altri popoli sono silenziosamente massacrati sotto una generale cecità gonfia di ipocrisia? Perché non intervenire allora a favore dei Palestinesi terrorizzati e massacrati da anni, o a favore del popolo dello Yemen o in Algeria? I governi Occidentali sembrano stranamente uniti su una “politica di silenzio comune” secondo la quale non si parla di intervento contro le repressioni governative contro le popolazioni in Bahrein o in Yemen o contro le sparatorie contro i civili in Arabia. Perché l'Occidente interviene dunque in Libia, e non ad esempio in Cecenia, dove le armate russe hanno consumato uno dei più grandi genocidi dell'età moderna (250 mila morti su una popolazione di un milione)? Interventi umanitari selettivi dunque che non dipendono dalla gravità con la quale civili intorno al mondo vengono perseguitati, terrorizzati, massacrati, ma dal valore (economico e strategico) del paese in questione. Ecco perché nel tempo di un respiro da amici si diventa nemici, e da nemici amici, ecco perché un dittatore sanguinario si scopre tale solo dopo 40 anni di cecità collettiva. Non solo la Sinistra, ma noi Uomini tutti, dovremmo far sentire più forte il nostro ripudio a una politica estera italiana imbarazzante e a interventi umanitari selettivi portati avanti sempre e unicamente con lo strumento della guerra, antitesi prima di umanità.
Valentina Bartolucci è docente sulle politiche del terrorismo presso la Facoltà di Scienze per la Pace, Università di Pisa, Italia
La storia dell'intervento umanitario però francamente non convince. Specialmente per due motivi: da una parte una ragione temporale, dall'altra di coerenza. Per quanto riguarda la dimensione temporale, che Gheddafi fosse un tiranno e un dittatore sanguinario non è scoperta recente. Il pericolo dato da 'amicizie pericolose' che l'italia, e più in generale l'Occidente, si prodigava a mantenere con gesti anche umilianti (ad esempio il famoso baciamano di Berlusconi a Gheddafi) era stato fatto presente già in passato, così come erano emerse foto vergognose di veri e propri lager libici e varie organizzazioni, quali Human Rights Watch, avevano denunciato i maltrattamenti che migranti e clandestini subivano in Libia, già nel 2009 e negli anni precedenti. Questo comunque accadeva marginalmente, per la maggior parte la stampa occidentale osannava Gheddafi, politicamente visto come poliziotto di un'immigrazione clandestina potenzialmente incontrollabile, garante di stabilità nella regione e soprattutto Re dell'oro nero. Così per 40 anni l'Occidente ha taciuto, inghiottendo abusi e crimini mascherati da eccentricità da parte di un “amico” con molte risorse e tanti tanti soldi.
Se è dunque vero che qualcosa doveva pur esser fatto per fermare un vero e proprio massacro alle porte dell'Europa da parte dell'amico ora nemico per mezzo secolo incontrastato, le domande brucianti riguardano i tempi e i modi. Le due questioni sorgono spontanee: perché si interviene solo ora, dopo avere tollerato per 40 anni un governo sconsiderato e sanguinario; e perché con la guerra – in ultimo luogo una sconfitta per tutti? Come la De Gregorio accompagnata da molti altri sostiene, la guerra è veramente l'ultimo dei mezzi, la politica invece dovrebbe essere il primo. Gheddafi poteva – doveva – esser fermato prima, molto prima e ciò poteva esser fatto in vari modi: sanzioni economiche, mezzi diplomatici e azioni di pressione contro un governo che da tempo inviava segnali pericolosi. Invece, l'Occidente ha aspettato, spettatore silenzioso di gravi violazioni di diritti umani, pratiche illegali e altro in nome di due supreme ragioni: approvvigionamento energetico e stabilità. Però, nel delicato equilibrio dato da amori di convenienza, una volta indebolito e inutile, l'amico del giorno prima diventa nemico, e si interviene dunque per cancellare il matrimonio farsa con un divorzio lampo. La Francia di Sarkozy interviene in prima linea, gonfia di retorica umanitaria, per cercare di salvare una politica estera traballante e di rialzare i consensi di un governo ai suoi minimi storici. La Libia può essere una buona carta, anzi l'unica e decisiva, per poter rivincere le elezioni ormai vicine. L'America di Obama, titubante, si accolla il “fardello”, l'Italia di Berlusconi segue per non rimanere 'ultima ruota del carro' e per scongiurare il pericolo di aver come unico 'guadagno' un'ondata biblica di profughi e migranti non accompagnati da petrolio, l'Occidente quasi intero per accaparrarsi un posto in prima fila nell'approvvigionamento del petrolio – da sempre portatore di disgrazie per chi lo possiede.
Per quanto riguarda i modi, la questione centrale qua è la coerenza. Perché parlare di diritto di autodeterminazione del popolo libico, quando altri popoli sono silenziosamente massacrati sotto una generale cecità gonfia di ipocrisia? Perché non intervenire allora a favore dei Palestinesi terrorizzati e massacrati da anni, o a favore del popolo dello Yemen o in Algeria? I governi Occidentali sembrano stranamente uniti su una “politica di silenzio comune” secondo la quale non si parla di intervento contro le repressioni governative contro le popolazioni in Bahrein o in Yemen o contro le sparatorie contro i civili in Arabia. Perché l'Occidente interviene dunque in Libia, e non ad esempio in Cecenia, dove le armate russe hanno consumato uno dei più grandi genocidi dell'età moderna (250 mila morti su una popolazione di un milione)? Interventi umanitari selettivi dunque che non dipendono dalla gravità con la quale civili intorno al mondo vengono perseguitati, terrorizzati, massacrati, ma dal valore (economico e strategico) del paese in questione. Ecco perché nel tempo di un respiro da amici si diventa nemici, e da nemici amici, ecco perché un dittatore sanguinario si scopre tale solo dopo 40 anni di cecità collettiva. Non solo la Sinistra, ma noi Uomini tutti, dovremmo far sentire più forte il nostro ripudio a una politica estera italiana imbarazzante e a interventi umanitari selettivi portati avanti sempre e unicamente con lo strumento della guerra, antitesi prima di umanità.
Valentina Bartolucci è docente sulle politiche del terrorismo presso la Facoltà di Scienze per la Pace, Università di Pisa, Italia